Ancora a proposito del Bardo. Maria Dolores Pesce, APATIA E VIOLENZA DI UN GENERALE SHAKESPEARIANO

foto coppiaNelle foto di Tommaso Le Pera: a sinistra, Eros Pagni; a destra, Raf Vallone (suo fratello Marco Andronico), Pagni, Almerica Schiavo (sua figlia Lavinia), Luca Zingaretti (Lucio, un altro suo figlio)

Se l'”After Shakespeare” del TPE da domenica si riposa un poco, proseguono i contributi shakespeariani. Eccone uno di Maria Dolores Pesce, che volentieri pubblichiamo. Si riferisce al “Tito Andronico” per la regia di Peter Stein, Stabile di Genova 1989/1990

È un doppio ritorno quello che riconduce il generale romano Tito Andronico dalla vittoriosa guerra sui barbari Goti all’Urbe. Un ritorno fisico dalle selvagge foreste del Nord alla civilissima città centro di un immenso impero. Ma è anche un ritorno interiore e psicologico dal comando di un esercito imperiale, dal ruolo pubblico cioè, alla famiglia.
Nella tragedia shakespeariana omonima, dalle fonti incerte e storicamente scarsamente attestate, si realizza dunque un viaggio in cui si sovrappongono e si mescolano epoche e storie personali in una sorta di pendolo drammaturgico, magistralmente sostenuto dalla scrittura del bardo, tra arcaico e moderno. Antenati e discendenti, in un ripetuto e ineludibile servaggio del sangue, chiedono sacrifici e reciproche vendette (quella di Tito sui figli di Tamora, la selvaggia e bellissima regina dei Goti, e quella, uguale e contraria, di quest’ultima sui figli dell’Andronico), chiedono violenza e morte. La legge e la politica chiedono gerarchie e strutture che da quel servaggio si devono riscattare. Ecco dunque che, paradossalmente, quella violenza è esercitata con distacco, quasi fosse un dovere civico e quel sangue che scorre senza freni in scena e nella storia può essere contemplato e sopportato nella apatia. Apatia che, in Shakespeare, è distacco stoico e non l’indolenza che nel moderno sentire si è sovrapposta, per debolezza, a quel primo forte significato.