Insidiosi, proteiformi, gli automi pur di far irruzione nelle nostre vite sanno miniaturizzarsi, ci offrono servigi, mutano forma e rinunciano a fingersi vivi. Scandiscono le ore e i minuti delle nostre vite quelle tonde ostriche di metallo, quei rettangoli mentitamente pitagorici, gli orologi. L’inesatto tempo di Atene la dialettica e Roma la bellicosa s’accompagnava al trascorrere del sole, al variare della luce; potevano bastare le tacite clessidre a sabbia, sebbene il trascorrere dei granuli ne dilatasse via via i forami; e le clessidre ad acqua patissero le lentezze dei geli, e i fatui vapori del solleone. Il duro ticchettio degli orologi è tutto nostro, quelle minute viscere di metallo, quel vibrar di quarzi che ci dice – nemmeno ci avverte – del nostro ininterrotto perire.
Giorgio Manganelli, UFO e altri oggetti non identificati, Quiritta
La voce letteraria di Paolo Brunati un giorno dovrà pur essere riconosciuta come una tra le più originali (e appartate) della nostra storia recente. È la mia speranza ma anche convinzione. Paolo scriveva da novecentista e da europeista, soprattutto. Ecco perché la grande macchina editoriale non si è accorta di lui, e lui non alzava di certo la voce. Non ha mai sgomitato, non si è mai indignato o offeso, non si è sentito vittima di una cecità culturale, non era nel suo stile. Ha invece continuato a scrivere, in silenzio, nel segmento ventennale che unisce il suo primo libro, Coleotteri e signorine, pubblicato dall’allora nuova casa editrice Portofranco, creazione di Alberto Gozzi (ed è lì che ci siamo conosciuti, compagni di collana, insieme a Antonio Moresco, Dario Voltolini, Michele Mari, Nico Orengo, tra gli altri) a Colloqui con il pesce sapiente, appena uscito da Miraggi, una raccolta di fulminanti microtrattati, arguti, sorprendenti e precisissimi, da entomologo del pensiero e della penna. In questi vent’anni, fortunatamente, la sua vena ironica, filosofica, oulipiana, europeista per l’appunto, non si è mai prosciugata ma ha continuato a stendersi e scorrere su decine di taccuini manufatti (i più grandi li chiamava “taccuoni”). Migliaia di pagine vergate a inchiostro che sono un lascito prezioso e con le quali, prima o poi, la letteratura italiana dovrà confrontarsi. Ci saranno tesori là dentro, ne sono certo. Quando, il mese scorso, insieme all’editore Fabio Mendolicchio e ad Alberto Gozzi, gli abbiamo portato a casa, dov’era costretto a letto, le prime copie del “Pesce Sapiente”, il suo sorriso, seppur dolorante, si è manifestato come uno di quegli esseri inconoscibili che amava tanto e che spesso inventava, il nautilo levigato, la sirena, l’ornitorinco, il pennino-coleottero… «È bellissimo. Sono commosso.» E ancora: «Adesso dovete pensarci voi.» In Colloqui con il pese sapiente c’è una prosa brevissima (14 righe) intitolata “Intorno a una bella morte”. Parla di un moscerino della frutta. A fondo pagina c’è una nota che dice così: «Io credo che non morirò su una pagina, non foss’altro perché non esistono pagine scritte abbastanza grandi da poterci morir su, capaci di ospitare un cadavere umano». Te ne sei andato tre giorni fa, caro Paolo, e come sempre, avevi ragione tu: non morirai su una pagina perché le tue pagine continueranno a nascere e a vivere e poi a rinascere e a rivivere. È una promessa che ti abbiamo fatto e che manterremo.
Giovanni – 27 settembre 2004 Pordenone. Ieri, circa le undici di mattina. Sono sopravvissuto alla premiazione della Vetrina Più Bella di Pordenonelegge, il Festival dei libri con gli autori. Il proprietario del negozio d’abbigliamento «Fou You» ha vinto una targa e due borse piene di libri. Mi inoltro nel corso pieno di gente. Mentre contemplo una bancarella di chincaglierie – e mi domando, perplesso, quante siano le chincaglierie esistenti al mondo; e se mai, a forza di vendere, le chincaglierie finiranno – una voce maschile chiama: «Giovanni! Giovanni!» La voce sembra piuttosto irritata. Io osservo un piccolo busto di John Kennedy in legno dipinto. Si sente ancora: «Giovanni! Giovanni!» La voce sembra furibonda. Com’è come non è, mi volto. E mi trovo difronte un tipo ansimante con tantissimi capelli, una camicia a righe fuori dalle braghe, la faccia arrossata. «Giovanni, cazzo», dice il tipo. «Ce l’ha con me?», dico, puntandomi l’indice destro al centro del petto. Il tipo sbianca. «Scusa», dice continuando ad ansimare, «scusa, cazzo, ti avevo preso per Giovanni, cazzo, dove cazzo sarà finito.» «Mi spiace», dico,«ma non la posso aiutare». «Ma che cazzo te ne frega a te» dice il tipo rallentando appena l’ansamento. «Che cazzo te ne frega a te», ripete. Lascio perdere. Faccio per voltarmi. «Che c’è?», dico. «E cazzo», dice il tipo continuando a tenermi la mano sulla spalla, «mi prendi per il culo e ne vai? Che cazzo me ne frega a me, non me ne incula un cazzo, se mi vuoi prendere per il culo fai come cazzo di pare, ma non te ne vai mica così, cazzo». «Be’», dico rigirandomi verso di lui e incrociando le braccia, «che cosa dovrei fare?» «Ma fa’ quel cazzo che vuoi, va’», dice il tipo. Mi molla la spalla, si gira e se ne va. «Giovanni! Giovanni!» Il bancarellaro delle chincaglierie, che evidentemente è del posto, mi strizza l’occhio: «Non si preoccupi. È fatto così». «Sì, vabbè», dico, «ma non è il massimo della cortesia, mi pare». Il bancarellaro ride. «Perché lei non conosce Giovanni», dice.
Giulio Mozzi, Sono l’ultimo a scendere (e altre storie), Laurana reloaded
Bisognava andarselo a cercare, il Brunati, mica si proponeva, tanto meno si promuoveva. Non “frequentava”, come si suol dire. O meglio, frequentava ambienti molto diversi da quelli in cui si coltivano relazioni e ci si compiace della comune appartenenza alla Società Letteraria. I suoi spazi erano le montagne, il mare e l’aria, nella quale un tempo aveva volato a bordo degli alianti. Scrittore-camminatore, sulla scia di un’alta tradizione, i taccuini erano i compagni con i quali si intratteneva durante le soste. Ne ha riempiti moltissimi, riserveranno delle sorprese all’editore che vorrà avventurarsi nella loro lettura: Colloqui con il pesce sapiente, che Miraggi editori ha provvidenzialmente pubblicato poco prima che Brunati se ne andasse possono essere un primo passo nell’esplorazione di un autore che ha vissuto per tanti anni nella Scrittura. La coltivava ogni giorno, intrattenendo con essa un rapporto scettico e spesso beffardo, ma necessario. Il giorno dell’uscita del libro, nel pieno della malattia che lo ha portato via, mi aveva confidato: “Mi piace questa mia metamorfosi cartacea”. “Come sei brunatiano”, gli avevo risposto. I suoi lettori sanno che cosa intendevo dire.
Sull’eterna giovinezza dei morti
Un morto si deve dire che non è più o bisogna dire che è ancora? Io propendo per la seconda ipotesi, che sia ancora, Però un morto dura molto meno di un vivo per certe reazioni chimiche che gli si innescano dentro. Ho letto che i morti, quasi immediatamente dopo morti, incominciano ad autodigerirsi, partendo, com’è giusto, dallo stomaco. Non vedono l’ora di mangiarsi, di andare a tavola. A causa di questo pasto la vita del morto dura molto meno di quella del vivo che si consuma invece all’esterno e può durare, quella umana, persino più di un secolo. La vita dei morti invece di andare avanti arretra fino a ridursi all’osso. E quasi contemporaneamente, nei vivi, si ossifica il ricordo di loro (il ricordo è la parte impalpabile dei morti che rimane nei vivi, una sorta di loro anima terrena. C’è niente di più terreno dell’anima). Il morto diventa indolore e pulito. Non fosse per la quarantena in cui lo si tiene, rigorosamente separato dai vivi, lo si potrebbe dare in mano anche a un bambino, ci si potrebbe giocare o tenerlo come portafortuna, come soprammobile. È insomma evidente che la morte non può cogliere che nel pieno della vita, di cui è un’improvvisa e rivoluzionaria trasformazione. Ma è con le donne che la giovinezza dei morti appare in tutto il suo fulgore. Credo abbia a che fare con la fisiologia del ricordo, dove le immagini ricordate rimangono fisse, e con il tabù ancestrale dell’incesto, ma che una donna possa morir vecchia mi pare contro natura quanto un rapporto sessuale con una novantenne. Le ragazze con cui ho giaciuto son morte? da anziane signore, da mogli e madri esemplari, da care nonnine? La Morte sceglie soltanto donne giovani e leggiadre, e vecchie e laide lascia altrui.
“L’inchiostro è velenoso. Dalla sua radice si genera una pianta che può essere tossica, ma anche farmaco capace di curare, ricongiungendoci con ciò che sempre rinasce. Quando la radice dell’inchiostro non attinge agli strati primari, la scrittura si autogenera, prolifera come una pianta infestante, inutile e dannosa all’uomo. Come ogni sostanza tossica, si diffonde con grande facilità: i libri che la contengono occupano gli schermi di computer e tv, le pagine dei quotidiani. La scrittura che è farmaco è una pianta piuttosto rara. Per riconoscerla è necessaria attenzione e quella dedizione, quel lento apprendistato che hanno i cercatori di funghi. Questa pianta apre a un’esperienza che trasforma noi stessi e la realtà, rendendoci a nostra volta artefici e tramiti della creazione. Per questa potenza che dona, non viene protetta né coltivata dalle istituzioni che detengono il sapere. Cresce in terreni marginali, connessi con gli strati più profondi, dove si deposita e rigenera un’antica originaria ricchezza, dove dormono i nostri antenati. Questa pianta si nutre della morte che si è fatta humus. Per le sue fibre non c’è fine che non sia inizio. Germoglia e dirama proprio in questo ritmo.” Leggi l’articolo: http://www.leparoleelecose.it/?p=40958
Un capo della polizia che aveva veduto un poliziotto picchiare un furfante si mostrò molto indignato e avvertì il subalterno che non avrebbe mai più dovuto agire a quel modo, se non voleva rimetterci il posto. « Non siate troppo severo con me, » disse il poliziotto sorridendo; «lo picchiavo con un bastone pieno di crusca. » « Eppure, » continuò il capo della polizia, « si tratta di cosa sgradevole; anche se non gli avete fatto male. » « Ma, » disse il poliziotto, « era un furfante di stoppa. »* Nel cercar di esprimere la propria soddisfazione il capo della polizia allungò la mano destra con tale violenza che si ruppe la pelle dell’ascella e una quantità di segatura scese dalla ferita. Era falso anche il capo della polizia.
Un corto animato firmato da una poetessa e un filmmaker racconta con eleganza e lirismo un tema di grande attualità. Come mantenere la serenità e godere ancora della vita quando si è chiusi in casa?
Sto ccà, Isabè, sto ccà… Ch’è, nun me vide? Già, nun me può vedé… ma stongo ccà. Sto mmiez’ ‘e libre, mmiez’ ‘e ccarte antiche, pe’ dint’ ‘e tteratore d’ ‘o cummò. Me truove quann’ ‘o sole tras’ ‘e squinge se mpizz’ ‘e taglio e appiccia sti ccurnice ndurate argiento grosse e piccerelle ‘e lignammo priggiato – acero noce palissandro mogano – pareno fenestielle e fenestelle aperte ncopp’ ‘o munno… Me truove quann’ ‘o sole se fa russo primmo ca se ne scenne aret’ ‘e pprete ndurann’ ‘e rame ‘e ll’albere e se mpizza pe’ mmiez’ ‘e fronne, pe se fa guardà. Si no, me può truvà, scurato notte, rint’ a cucina p’arrangià caccosa: na puntella ‘e furmaggio, na nzalata… chellu ppoco ca te supponta ‘o stommeco e te cucche. Primmo d’ ‘a luce ‘e ll’alba po’ me trouve a ttavulino, c’ ‘a penna mmiez’ ‘ ddete e ll’uocchie ncielo pensanno a chello ca t’aggio cuntato e ca nun aggio scritto e ca va trova si nun è stato buono ca se songo perduto sti penziere distratte e stanche d’essere penzate che corrono pe’ ll’aria nzieme a me. E si guarde pe’ ll’aria po’ succedere ca si ce stanno ‘e nnuvole me truove. ‘O viento straccia ‘e nnuvole e comme vene vene, e può truva ciert’uoccie ca te guardeno sott’ ‘a na fronta larga larga e luonga e ddoje fosse scavate… ‘e può truvà.
Traduzione
Sono qui Isabella, sono qui Non mi vedi? Già non mi puoi vedere ma sono qui. Sono tra i libri, tra le carte antiche, dentro i cassetti del comò. Mi trovi quando il sole entra e accende le cornici dorate d’argento, grandi piccole di legno pregiato,noce aceto mogano e palissandro, sembrano finestrelle aperte sul mondo. Mi trovi quando il sole diventa rosso e prima di tramontare indora i rami degli alberi e si inserisce tra le foglie per farsi guardare. Altrimenti mi puoi trovare, quando si fa sera, in cucina mentre mi preparo qualcosa per riempire lo stomaco, un pizzico di formaggio e un po’ di insalata prima di addormentarmi Poi mi trovi all’alba, seduto a tavolino con la penna tra le dita e gli occhi verso il cielo pensando a ciò che t ho raccontato e non ho scritto E chissà se non sia stato un bene che si siano persi questi pensieri distratti che stanchi d esser pensati vagano per l’aria insieme a me E se guardi per l’aria può succedere che mi trovi tra le nuvole e che il vento strappi le nuvole e tra esse tu trovi due occhi che ti guardano…
Il termine “fallacia” può essere inteso in almeno due modi. In senso lato designa una qualsiasi idea, opinione o credenza sbagliata; per esempio che le donne non sappiano guidare o che rompere uno specchio porti sette anni di disgrazie. Come si vede, stando a questa prima accezione del termine, le fallacie si fondano sugli stereotipi, sulla superstizione o comunque su detti e proverbi popolari, e perciò non ambiscono in nessun modo a risultare convincenti. Ma le cose cambiano se ci spostiamo dal linguaggio comune al linguaggio filosofico-scientifico. In senso stretto, infatti, “fallacia” indica un’argomentazione o un ragionamento che sono logicamente viziati ma psicologicamente persuasivi; ciò può avvenire in modo consapevole e deliberato, quando vengono prodotti con l’intenzione di ingannare, e allora parleremo di sofismi, o inconsapevolmente, quando vengono prodotti senza volontà di inganno, e allora parleremo di paralogismi. In estrema sintesi, nella prospettiva della logica dell’argomentazione la fallacia è un ragionamento che ricorda un qualche tipo d’inferenza, ma che se sottoposto a un esame rigoroso si rivela scorr
Lui Allora lui pensa che sono uno scemo? Lei Lo pensa di tutti. Lui Ma ti ha detto che io sono uno scemo? Lei Ha detto tante di quelle cose. Lui Ma glielo hai sentito dire? Lei Da quello che mi ha detto su di te, non credo che ti rispetti. Lui Non mi rispetta e pensa che sono uno scemo. Lei Ti usa, come usa tutti. Dimenticalo. Lui A che tipo di giochi gioca? Lei Senti, non importa. Non ha lasciato tracce, sono sopravvisssuta. Lui Vuoi dire, vuoi dire che dopo tutto questo tempo con lui, la corda si è spezzata, slap, così? Lei Era logorata. Lo sai cosa vorrei ora? Lui Cosa? Lei Vorrei che lui entrasse e che ci vedesse. Nudi. L’uno nelle braccia dell’altro. Lui Davvero? Lei Baciami. Lui Sai che ti dico? Ha fatto un grave errore. Io non sono uno scemo
Che cos’è uno scandalo? Il termine suona oggi un po’ rétro, e questo echeggiare, tuttavia, ha le sue ragioni. Forse, viviamo nell’epoca del post-scandalo, quello in cui nessuno si scandalizza più (ma, attenzione, lo cantava Celentano già negli anni 60), e cioè in tempi in cui s’è introiettata un’indecenza che, divenendo pane quotidiano, non turba manco le anime più sensibili e leggiadre. Se tutto è scandaloso, nulla lo è. Leggi il seguito dell’articolo: http://www.doppiozero.com/materiali/fisionomia-dello-scandalo
“Dunning e Justin Kruger sono due psicologi della Cornell University che nel 1999, dopo una serie di studi, sono giunti a una conclusione che potremmo riassumere così: le persone incompetenti tendono a sopravvalutarsi, a sovrastimare le proprie capacità, ritenendole, nei casi più gravi, addirittura superiori alla media. Effetto Dunning-Kruger, si chiama. Ovvero: più uno non sa niente di un argomento, non ha vere capacità, più crede di saperla lunga.”,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,
So che cos’è un poeta, perché anch’io, se è lecito dirlo, lo sono. Per dirla in breve, un poeta è un essere assolutamente inservibile nel campo di qualunque attività seria. Non è necessario che possieda capacità straordinarie; potrebbe, anzi, essere lento e tardo di comprendonio, come sono sempre stato io. D’altronde il poeta non è che un ciarlatano rimasto fanciullo, incline alla dissolutezza, infame sotto ogni riguardo, un ciarlatano che non dovrebbe aspettarsi dalla società, come in fondo non si aspetta, altro che tacito disprezzo. Invece la società offre ai geni di questo tipo la possibilità di godere prestigio e di condurre vita di grandi gaudenti. A me questo può andar bene, nel traggo dei vantaggi. Però non è giusto, perché si incoraggia il vizio e si mortifica la virtù.