
Questo è Carlo Quartucci sul suo Lancia Esatau degli anni Trenta. La foto risale al 1974 circa. A bordo di quel camion salii anch’io per un tormentato viaggio da Torino a Bologna. Il quel periodo lavoravo con Carlo come drammaturgo e sembrava necessario che mi trasformassi, anche per una sola volta, da uomo di tavolino in viaggiatore sul camion reale. Fino a quel momento Camion (così lo si chiamava, senza l’articolo, come se fosse un Moby Dick addomesticato oppure un manifesto di poetica, come Dada) era stato un contenitore dell’immaginario. Nel progetto di Quartucci i camionisti erano eroi omerici decaduti, le strade oceani, e gli attori, che solamente nel suo racconto se ne stavano ammucchiati sul pianale, una ciurma eterogenea di comici mescolati alla più svariata umanità. Il viaggio Torino/Bologna, alla velocità media di trenta chilometri orari, non offrì nessuna emozione, se si escludono innumerevoli soste a ogni piazzuola dell’autostrada per far bere Camion che ogni qualche chilometro incominciava a bollire. Ogni sosta poteva essere l’ultima e a Bologna, quella sera stessa, saremmo dovuti andare in scena. I camionisti che incontrammo non avevano nulla di epico, l’autostrada era solo un nastro bollente e monotono, quanto ai comici viaggiavano per conto loro. La realtà non aveva niente da dire. Tuttavia, io il copione lo scrissi: era la riscrittura di ciò che sarebbe potuto accadere se la vita fosse stata uno spettacolo anziché una semplice vita. Per la verità, ciò che io scrissi non era un copione, ma un romanzo a puntate che, di replica in replica, veniva recitato da Carla Tatò in veste di attrice/narratrice. Si intitolava Il romanzo di Camion, ed è un vero peccato che gli storici del teatro (e anche molti esegeti di Quartucci) non ne facciano menzione. Lo videro in pochissimi, ma i ricercatori solerti di oggi dovrebbero trovarne traccia. Il romanzo di Camion trovò la sua epifania al Festival del teatro di Chieri (l’anno esatto non lo ricordo, ma siamo sempre entro la metà degli anni Settanta). Forse non lo si ricorda perché fu uno un “grande insuccesso”, come avrebbe detto Carmelo Bene. Ma non mi sembra una buona ragione, esistono insuccessi affascinanti così come successi del tutto banali. Quell’insuccesso era del primo tipo. Il mio romanzo era molto scritto, e forse troppo lungo. Il pubblico incominciò a rumoreggiare. Carla smise di recitare, s’inalberò e investì il pubblico con crude parole. Suggerii a Quartucci (eravamo in scena anche noi) di aprire la gabbia dell’attore trasformista (Gigi Mezzanotte). La gabbia era un cubo di due metri per due metri a listelli di legno. Fra un listello e l’altro, il pubblico poteva intravedere una sagoma umana informe e impaziente come una belva. Carlo seguì il mio consiglio e aprì lo sportello. Gigi Mezzanotte uscì, ricoperto di una quantità inverosimile di costumi dei quali si liberò mentre apostrofava (secondo la scuola di Carmelo Bene) una signora in prima fila con un “Taci, Sofronia torinese!”, quindi incominciò a cercare per terra piccoli oggetti insignificanti che avevamo sparso in precedenza. Ogni oggetto richiamava una battuta del grande repertorio teatrale (la maschera di Lelio, dal Bugiardo di Goldoni, un monile perduto da Nora Helmer, e così via). Peccato che i critici e gli esegeti non lo ricordino, anche se oggi hanno l’attenuante di essere morti, ma potevano ricordarsene per tempo. Peccato, perché, per esempio, a Italo Calvino e a Giulio Einaudi, che erano venuti di loro iniziativa a Chieri, era piaciuto assai. Calvino mi chiese di leggere il romanzo, ma erano anni disordinati e le puntate che lo costituivano si erano dissolte insieme alle repliche – pensando all’oblio in cui cadde subito Il romanzo di Camion, mi verrebbe da dire che quei copioni erano morti per tempo, appena nati, beffardamente. Oggi è morto anche Carlo Quartucci, dopo una vita dedicata a una sperimentazione inesausta. I sopravvissuti a quella stagione sono pochi. Ancora qualche anno, e l’indifferenza potrà regnare tranquilla in un mare che assomiglierà molto a uno stagno.