
Narrativa. David Foenkinos, L’insegnante e il vuoto (frammento)

Forse il suo mestiere d’insegnante era semplicemente più difficile di un tempo? Si sentiva sempre più spesso parlare di genitori che si lamentavano e che a volte diventavano violenti. I professori finivano per essere lo sfogo di una società in crisi. Ma no, niente di tutto questo. Valérie non aveva mai incontrato il minimo problema nella sua scuola. Aveva sempre trovato studenti attenti e desiderosi di apprendere. Quando le avevano proposto una cattedra a Parigi, in una scuola molto più vicina a casa sua, aveva preferito restare a Villejuif, dove aveva i suoi punti di riferimento, dove era contenta di seguire il percorso di certi studenti ai quali era particolarmente affezionata. Allora perché aveva perso il gusto di comunicare?
Qualche mese prima, si era confidata con una collega che insegnava spagnolo, una donna un po’ più anziana di lei con la quale era in amicizia. «Questo tuo sentimento è del tutto normale», le aveva detto l’amica, «È comune a tutti gli insegnanti, prima o poi. La nostra è una vita professionale basata su una routine legata al calendario; si rientra sempre a settembre, le vacanze nelle solite date, si ha l’impressione che gli anni scivolino via gli uni sugli altri e che la vita scorra sempre uguale, senza nessun ostacolo. Dipende da te fare in modo che questo cambi. Puoi portare i tuoi studenti in gita scolastica, innovare, inventare delle cose…»
La sua collega non aveva torto. Valérie si sentiva schiacciata dalla routine e non cercava di reagire, mentre invece aveva un notevole margine di manovra. Finalmente si decise a portare i suoi studenti ad Auschwitz. Questa iniziativa aveva motivato la classe, gli studenti sembravano trasfigurati all’idea di questo viaggio nella memoria dell’orrore. Tuttavia Valérie si ricordava perfettamente che una sera, nella sua camera d’albergo, a Cracovia, non era riuscita a scacciare il sentimento di un vuoto assoluto. Qualcosa mancava terribilmente alla sua vita, ma non sapeva che cosa.
David Foenkinos, La famille Martin, Gallimard
Le figurine di Radiospazio. Donne decise
La signora saliva in vettura raccogliendo gli ampi drappeggi della gonna e del mantello. L’uomo, poco distante, sul marciapiede, la guardava tremante.
Aveva un tale desiderio di raggiungerla, che fece ancora alcuni passi verso di lei e, senza accorgersene, posò la mano sulla maniglia della portiera, come per impedire che la carrozza rapisse l’oggetto del suo desiderio.
La donna abbassò la seta che le copriva il viso e domandò, con la massima naturalezza: «Volete salire, caro signore?»
«Scusate, signora, sono un idiota… calpesto il vostro mantello, a momenti salgo sulla vostra vettura… Scusate, scendo subito.»
Ella scoppiò a ridere, d’un riso franco, infantile. Il cocchiere, perplesso, aspettava ordini.
«Su, andiamo, Jean, porto il signore a casa mia!»
Narrativa. Witold Gombrowicz, Sul Sublime e i professori di liceo (irresistibile. N.d.R)

L’insegnante sospirò, si contenne, guardò l’orologio e parlò. «Un sommo poeta! Ricordatevelo, è importante! Perché lo amiamo? Perché era un sommo poeta: sì, un sommo poeta! Fannulloni ignoranti, ve lo ripeto, ficcatevelo bene in testa, e quindi ve lo ripeto un’altra volta: un sommo poeta, Juliusz Słowacki, un sommo poeta, amiamo Juliusz Słowacki e adoriamo la sua poesia perché era un sommo poeta. Adesso scrivete il titolo del tema da fare a casa: “Perché nella poesia del sommo poeta, Juliusz Słowacki, aleggia una bellezza immortale che suscita l’ammirazione?”.» A quel punto della lezione uno degli scolari incominciò ad agitarsi nervosamente e protestò: «Ma quando mai! A me non suscita niente! Non suscita niente di niente! Non me ne può fregare di meno! Non riesco a leggere più di due strofe e comunque non mi piacciono neanche quelle. Misericordia, come fa a piacermi se non mi piace?!». Strabuzzò gli occhi e sedette, sprofondando in un baratro senza fondo. A quell’affermazione così ingenua l’insegnante si sentì soffocare. «Taccia, per Dio!» sibilò. «Gałkiewicz, basta! Mi vuole rovinare, Gałkiewicz? Ma si rende conto di quello che ha detto, Gałkiewicz?»
GAŁKIEWICZ «Ma come faccio! Non capisco come fa a piacermi se non mi piace!»
INSEGNANTE «Gałkiewicz, come fa a non piacerle quando le ho spiegato migliaia di volte che le piace, Gałkiewicz?»
GAŁKIEWICZ «E invece non mi piace.»
INSEGNANTE «Questo è un suo problema personale, Gałkiewicz. Del resto lei non è molto intelligente, Gałkiewicz. Agli altri piace.»
GAŁKIEWICZ «Ma glielo giuro, non piace a nessuno! Come può piacere se non lo legge nessuno tranne noi, che lo leggiamo a scuola solo e soltanto perché siamo costretti con la forza?»
INSEGNANTE «Silenzio, per Dio! Sarà perché di persone veramente educate e all’altezza non ce ne sono molte…»
GAŁKIEWICZ «Ma no, non piace nemmeno alle persone educate. A nessuno le dico, proprio a nessuno.»
INSEGNANTE «Senta Gałkiewicz, io ho moglie e figlio! Abbia pietà almeno del bambino! Gałkiewicz, è un dato di fatto che la somma poesia ci debba piacere, e del resto Słowacki era un sommo poeta… Forse Słowacki non la commuoverà, Gałkiewicz, ma non mi venga a dire che Mickiewicz, Byron, Puškin, Shelley o Goethe, ad esempio, non le scuotono l’anima…»
GAŁKIEWICZ «Non me la scuotono, nessuno me la scuote! Non me ne frega nulla di nessuno, che barba! Non riesco a leggere più di due strofe di quella roba. Dio santo! È più forte di me…»
INSEGNANTE «Questo è inaccettabile, Gałkiewicz! La poesia somma, essendo somma ed essendo poesia, non può non piacere, e quindi piace!»
GAŁKIEWICZ «A me no. E a nessuno. Santo Dio!»
L’insegnante, la fronte madida di sudore, estrasse dal portafoglio la foto della moglie e del figlio, e con quella cercò di commuovere Gałkiewicz, che però continuava a ripetere: «Non ci riesco, non ci riesco!». E quel commovente «non ci riesco» cresceva, si espandeva, arrivava ovunque, ormai da ogni parte si sentiva mormorare: «Neanche noi ci riusciamo!» e una generale impotenza si spandeva come una minaccia. L’insegnante si trovò in una terribile impasse. Da un momento all’altro poteva eruttare… che cosa? L’impotenza, da un momento all’altro il grido selvaggio del disvolere poteva esplodere e raggiungere il preside e l’ispettore, da un momento all’altro l’intero edificio poteva crollare e seppellire il suo bambino: ma Gałkiewicz proprio non poteva, Gałkiewicz continuava a non potere e non potere. Lo sventurato professore sentì che il non potere rischiava di insidiare anche lui. «Pylaszczkiewicz!» strillò. «Pylaszczkiewicz, «Pylaszczkiewicz, illustri immediatamente a me, a Gałkiewicz, a tutti quanti la costitutiva bellezza di una delle poesie più eccelse! Presto, perché periculum in mora! State attenti! Se solo qualcuno fiata ci sarà un compito in classe! Dobbiamo potere, dobbiamo potere, perché altrimenti saranno guai per il mio bambino!» Pylaszczkiewicz si alzò e incominciò a recitare il brano di un poema. Declamò. Sifone non risentiva affatto dell’impotenza che si era improvvisamente diffusa, anzi poteva perché era proprio dall’impotenza che ricavava la propria potenza. Recitava dunque, recitava commosso, con la giusta intonazione e con slancio. Ma soprattutto recitava meravigliosamente, e la meraviglia della recitazione, unita alla meraviglia del poema e alla sommità del vate e alla maestria dell’arte, si trasformava impercettibilmente in un monumento a tutte le possibili meraviglie e sommità.
E ancora, recitava con mistero e con devozione; recitava con ardore e con ispirazione; e intonava il canto del vate esattamente come il canto di un vate dev’essere intonato. Oh, meraviglia! Che grandezza, che genio, che poesia! La mosca, la parete, l’inchiostro, le unghie, il soffitto, la lavagna, le finestre, ecco, ormai l’incertezza dell’impotenza era liquidata.
Witold Gombrowicz, Ferdydurke, Traduzione di Irene Salvatori e Michele Mari
Le figurine di Radiospazio. Lettori e diligenze

Siamo ora giunti, lettore, al termine del nostro lungo viaggio. Poiché abbiamo viaggiato insieme attraverso tante pagine, comportiamoci scambievolmente come i viaggiatori in una diligenza che hanno passato parecchi giorni in compagnia e che nonostante i litigi o le piccole animosità che possono aver avuto luogo lungo la strada, fanno pace finalmente e rimontano per l’ultima volta nel loro veicolo allegri e di buon umore; poiché, dopo questo tratto, ci può capitare, come di solito capita a loro, di non incontrarci mai più.
Henry Fielding, Tom Jones
Il video della domenica. Kate Tempest, Wasted (trailer)
Narrativa. Alberto Arbasino, Turbamenti alla Scala (frammento)

Arbasino, L’anonimo lombardo
Le figurine di Radiospazio. Valutazioni errate
Lui Allora lui pensa che sono uno scemo?
Lei Lo pensa di tutti.
Lui Ma ti ha detto che io sono uno scemo?
Lei Ha detto tante di quelle cose.
Lui Ma glielo hai sentito dire?
Lei Da quello che mi ha detto su di te, non credo che ti rispetti.
Lui Non mi rispetta e pensa che sono uno scemo.
Lei Ti usa, come usa tutti. Dimenticalo.
Lui A che tipo di giochi gioca?
Lei Senti, non importa. Non ha lasciato tracce, sono sopravvissuta.
Lui Vuoi dire che dopo tutto questo tempo con lui, la corda si è spezzata, slap, così?
Lei Era logorata. Lo sai cosa vorrei ora?
Lui Cosa?
Lei Vorrei che lui entrasse e che ci vedesse. Nudi. L’uno nelle braccia dell’altro.
Lui Davvero?
Lei Baciami.
Lui Sai che ti dico? Ha fatto un grave errore. Io non sono uno scemo.
Il video della domenica. Uno storico provino: JEAN PIERRE LEAUD/I QUATTROCENTO COLPI
È difficile immaginare qualcosa di più adolescenziale di un quattordicenne che si proclama disinvolto. Nel 1959, il piccolo Jean Pierre, classe 1944, era evidentemente pronto per andare sul set. (Segue una minuscola appendice a sorpresa).
Narrativa, Gianni Celati, La malinconia dei bambini (frammento)

I due bambini si annoiavano moltissimo, soprattutto in metropolitana a osservare la gente che non sa mai dove mettersi perché ha sempre paura che gli altri la guardino, o quelli che vogliono far capire agli altri che loro se ne infischiano di tutto, o quelli che vogliono far capire agli altri che loro sono stanchissimi di tutto. Queste cose facevano venir loro la malinconia.
Poi facevano venir loro la malinconia gli automobilisti che suonano il claxon per far vedere che loro hanno fretta; quelli per strada che spingono per far vedere che vanno per i fatti loro; quelli nei bar che discutono di cose che non interessano a nessuno, solo per far vedere come sanno parlare; quelli che ridono quando non c’è niente da ridere, solo per far vedere che hanno capito tutto; quelli nei negozi che guardano da un’altra parte per far vedere che loro non hanno tempo da perdere; le donne che guardano da un’altra parte per far vedere che si lasciano ammirare, ecc.
In pratica tutto quello che vedevano andando in giro faceva venir loro la malinconia, ed era la stessa malinconia che veniva loro quando erano a casa e sentivano parlare i loro genitori o parenti.
Gianni Celati, Bambini pendolari che si sono perduti, Feltrinelli
Le figurine di Radiospazio. Čajkovskij

Una dama appassita e molto artificiosamente acconciata, agitando un ventaglio di piume di struzzo nere, venne verso di me.
«Guarda un po’, il maestro Čajkovskij! Complimenti per il successo!»
«Per quale successo?», le chiesi piuttosto irritato.
«Be’, be’, lei lo sa benissimo, maestro: la nuova sinfonia. Di grande effetto. Forse un po’ triste e un po’ rumorosa, ma di grandissimo effetto!»
Non riuscivo a risponderle. «Come faccio a liberarmi di questa qui? Una cretina integrale. E perché ride così forte, adesso? Forse ha detto per caso una cosa quasi giusta. Forse la sinfonia è un fallimento, pura e semplice vanità, insincera, vuoto rumore. Allora, il Signore abbia pietà della mia anima. Più vicino alla verità non riesco a giungere…»
Il video della domenca. Luigi Russolo and The Futurista Sound System
Laurence Sterne, Le risorse della retorica (frammento)

— Non hai mai visto un orso bianco? — chiese mio padre, rivolgendosi a Trim che se ne stava in piedi dietro la sua sedia. — A Vossignoria piacendo, no! — Ma sapresti parlarne Trim, in caso di bisogno? — Come è possibile, fratello, — intervenne zio Tobia, — se ti ha appena detto che non ne ha mai visto uno. — Qui ti volevo! — esclamò mio padre. — E ora ascoltami. Un ORSO BIANCO! Molto bene. Ne ho mai visto uno? Potrei vederne uno? Sto per vederne uno? Dovrò mai vederne uno? O potrò mai vederne uno? Avrei potuto vedere un orso bianco? (come me lo immaginerei?) Se vedessi un orso bianco, cosa direi? Se non dovessi mai vedere un orso bianco, allora? Se io mai ho, posso, devo, avrò da vedere un orso bianco vivo, potrò vederne almeno la pelle? Non ne ho mai Visto uno dipinto? Nessuno me lo ha mai descritto? Non ne ho mai sognato uno? Mio padre, mia madre, mio zio, mia zia, i miei fratelli o sorelle, videro mai un orso bianco? In tal caso, che darebbero per vederlo? Come si comporterebbero? E come si comporterebbe l’orso bianco? Sarà selvaggio o addomesticato? Terribile, ispido o morbido? Val la pena di vedere un orso bianco? Non vi è peccato in ciò? È meglio di uno NERO?
Laurence Sterne, Vita e opinioni di Tristram Shandy
Le figurine di Radiospazio. Finali repentini

Nasten’ka se ne stava ferma, in silenzio, come inchiodata al suolo; un momento dopo cominciò con una sorta di timidezza a stringersi forte a me. La sua mano cominciò a tremare nella mia mano; la guardai… Ella si appoggiò a me ancora più forte. In quell’istante passò accanto a noi un giovane. Egli a un tratto si fermò, ci guardò fissamente e poi fece di nuovo alcuni passi. Il mio cuore tremò… «Nasten’ka», dissi sottovoce, «chi è, Nasten’ka?» «È lui!» mi rispose lei in un bisbiglio, stringendosi ancora di più a me trepidando… Io mi reggevo a stento sulle gambe. «Nasten’ka! Nasten’ka! Sei tu!» risuonò una voce dietro a noi e in quello stesso istante il giovane fece alcuni passi verso di noi…
Mio Dio, come gridò! Come sussultò! Come si strappò dalle mie braccia e gli volò incontro!… Io ero lì fermo e li guardavo come colpito a morte. Ma appena ella gli ebbe dato la mano, appena si fu gettata tra le sue braccia, improvvisamente di nuovo si voltò verso di me, in un lampo mi fu accanto e, prima che riuscissi a raccapezzarmi, mi gettò entrambe le braccia al collo e mi baciò forte e con ardore. Poi, senza dire una parola, si lanciò di nuovo verso di lui, lo prese per le mani e lo trascinò con sé. Io rimasi lì a lungo a guardarli… Finalmente entrambi sparirono alla mia vista.
Fëdor Dostoevskij Le notti bianche
Maurice Blanchot, Medicina e magia

Quando pensiamo a Freud, siamo certi di aver avuto in lui una reincarnazione tardiva, forse l’ultima, del vecchio Socrate. Che fede nella ragione è stata la sua, che fiducia nel potere liberatorio del linguaggio. Che potere riconosceva alla relazione più elementare: un uomo che parla e un uomo che ascolta. E come per incanto non solo gli spiriti, ma anche i corpi guariscono: fatto mirabile e che quindi trascende la ragione. Per evitare grossolane interpretazioni magiche di questo fenomeno meraviglioso, Freud ha dovuto sobbarcarsi a un’ostinata opera di delucidazione, tanto più necessaria in quanto il suo metodo, cominciato assai vicino al magnetismo, all’ipnosi e alla suggestione, aveva un’origine impura. Anche ridotti a rapporti di linguaggio, i rapporti tra medico e malato non restano forse essenzialmente magici? Non sempre la magia comporta le cerimonie, l’imposizione delle mani o l’impiego delle reliquie. Essa è già presente là dove un uomo si dà importanza con un altro, e se tra un semplice malato e il suo medico intercorre un rapporto di autorità in cui quest’ultimo abusa sempre della propria importanza, ciò sarà vero a maggior ragione con un malato che non si reputa o non è reputato ragionevole. In qualsiasi clinica psichiatrica quest’impressione di violenza salta agli occhi del visitatore, che del resto vi contribuisce con lo spettacolo. Le parole non sono libere, i gesti ingannano. Tutto ciò che l’uno dice, tutto ciò che l’altro fa, paziente o dottore, è astuzia, finzione o prestigio. Siamo in piena magia.
Maurice Blanchot, La conversazione infinita, Einaudi.