Pietroburgo, 16 marzo 1891, Torno dall’aver assistito al debutto dell’attrice italiana Eleonora Duse nella Cleopatra di Shakespeare. Io non so l’italiano, ma ha recitato così bene che m’è parso di capire ogni parola. Un’artista meravigliosa. Non avevo mai visto nulla di simile. Guardavo la Duse e mi sentivo stringere il cuore all’idea che siamo costretti a formarci il temperamento su certe attrici legnose come la N. e simili, che noi chiamiamo grandi per non averne mai vedute di migliori. Guardando la Duse ho capito perché il teatro russo è così noioso.
«Non le vendo le violette di ieri, appassiscono…» «… Stooop!» Il regista si alza di scatto dalla sua sedia e mi si avvicina: «Mi permetta di dirle una cosa, madame. Il modo con cui lei spalanca quella porta è troppo ampio. Conferisce a quel gesto troppa importanza drammatica.» «Sì, lo so, sentivo che non andava.» «Mi permetta di mostrarglielo ancora una volta.» Il regista è ritto presso il tavolo. Le sue labbra tremano, i suoi occhi luccicano; ormai si è trasformato in una bella ragazza sul punto di scoppiare in lacrime. «Non le vendo, le violette di ieri, appassiscono». …E scappa, la faccia voltata da un’altra parte, fuori della stanza. Si sente un tonfo dietro le scene e un’imprecazione smozzicata fra i denti. Dev’essere inciampato in uno dei cavi. Un istante dopo riappare, sogghignando, il respiro un po’ mozzo. «Ha capito quello che voglio? Con una certa scioltezza. Senza strafare.» « Credo di aver capito», annuisco, mentre tutti e due sappiamo che rifarò la scena solamente per lui. «Molto bene, mia cara. Giriamola subito.» «Un momento, dov’è Timmy?… Timmy!» Accorre immediatamente il truccatore. «Com’è la faccia, a posto?»; ormai sono abituata ad affidargli la mia faccia con la stessa indifferenza con cui si allunga uno stivale al lustrascarpe. Timmy sfiora il mio viso con piccoli tocchi esperti e delicati: sa bene che questa maschera è il mio pane, la mia carriera, il mio strumento di lavoro. Quando il truccatore ha finito, l’aiuto operatore misura la distanza dall’obiettivo della macchina da presa al mio naso con un nastro. Infine, si gira di nuovo. Mentre recitiamo, vediamo il regista accanto alla macchina da presa: le sue labbra si muovono, il suo volto si distende e si contrae, le sue mani si contraggono nervosamente. Quando è tutto finito, sospira, come chi si desti da un sonno profondo. Dolcemente, amorosamente esala la parola: «Riposo.»
Christopher
Isherwood, La violetta del Prater, Mondadori,
traduzione. G. Monicelli
Devo raccontare in quale occasione fui colpito per la prima volta dalla malattia del secolo.
Ero a tavola, a una grande cena, dopo una mascherata. Attorno a me i miei amici riccamente travestiti, da ogni lato giovani e donne, tutti scintillanti di bellezza e di gioia; a destra e a sinistra piatti squisiti, bottiglie, lampadari, fiori; al di sopra della mia testa un’orchestra chiassosa e di fronte a me la mia amante, creatura superba che idolatravo. Avevo allora diciannove anni; non avevo sperimentato nessuna disgrazia e nessuna malattia; avevo un carattere allo stesso tempo altero e aperto, pieno di tutte le speranze di un cuore traboccante. I vapori del vino fermentavano nelle mie vene; era uno di quei momenti di ebbrezza in cui tutto quello che vedete, tutto quello che sentite vi parla della vostra amata. La natura intera appare allora come una pietra preziosa dalle mille sfaccettature, sulla quale è inciso il nome misterioso. Si abbraccerebbero volentieri tutti quelli che si vedono sorridere, e ci si sente fratelli di tutto ciò che esiste. La mia amante mi aveva dato appuntamento per la notte, e guardandola portavo lentamente il bicchiere alle labbra. Mentre mi voltavo per prendere un piatto, mi cadde la forchetta. Mi chinai per raccoglierla e, non trovandola in un primo momento, sollevai la tovaglia per vedere dove fosse caduta. Intravvidi allora sotto la tavola il piede della mia amante posato su quello di un giovane seduto al suo fianco; le loro gambe erano incrociate e allacciate, ed essi di tanto in tanto le stringevano dolcemente. Mi rialzai perfettamente calmo, chiesi un’altra forchetta e continuai a cenare. La mia amante e il suo vicino erano, da parte loro, anch’essi perfettamente tranquilli, si parlavano appena e non si guardavano. Il giovane aveva i gomiti sulla tavola e scherzava con un’altra donna che gli mostrava la sua collana e i suoi braccialetti. La mia amante era immobile, gli occhi fissi e pieni di languore. Li osservai tutti e due finché durò il pasto, e non vidi, né nei loro gesti né sui loro volti, niente che potesse tradirli. Alla fine, quando fummo al dolce, feci scivolare a terra il tovagliolo e, chinatomi di nuovo, li ritrovai nella stessa posizione, strettamente legati l’uno all’altra. Avevo promesso alla mia amante di riaccompagnarla a casa quella sera. Era vedova e di conseguenza molto libera, grazie a un vecchio parente che l’accompagnava e le serviva da chaperon. Mentre attraversavo il peristilio, mi chiamò. «Andiamo, Octave», mi disse, «usciamo, eccomi qua». Mi misi a ridere e uscii senza rispondere.
Alfred De Musset, La confessione di un figlio del secolo, Traduzione Alessandra Terni, Fazi editori
“Che cosa significa agire politicamente, e a quali condizioni può svilupparsi una vera e propria agency politica? Quale concezione di potere si dimostra la più convincente? (Potere come violenza? Come influenza e controllo? Il potere di dare ragioni? Azione collettiva?) Su quali basi si fonda il potere politico? (Sul terrore e la paura? Su un qualche tipo di legittimazione? Sul carisma e l’adorazione? Sulla tradizione e il “destino”? Sulle proprietà e ricchezze materiali?).”
Leggi l’articolo: http://www.leparoleelecose.it/?p=35964#more-35964
“Certo che si trova proprio di tutto qui,” dice John
Belushi mentre lui e Dan Aykroyd sono in macchina inseguiti dalla polizia in un
centro commerciale, tra manichini decapitati e clienti nel panico.
Nel 1987 c’erano sparsi per l’America circa 30mila shopping
mall, dove andava a finire il 50% di dollari spesi nella vendita al dettaglio
(il 13% del PNL). Nel 2007, per la prima volta in cinquant’anni, non è stato
costruito nessun centro commerciale negli USA, anzi, inizia a esserci il
problema di riconvertire quelli che hanno chiuso, alcuni sono diventati chiese,
scuole e sedi di Google, quelli deserti diventano bersaglio di fotografi delle
rovine. Il motivo è che il centro commerciale è stato sostituito, o da
un’esperienza più autentica, o da una più comoda (Amazon e simili). ”
Leggi l’articolo: https://thevision.com/architettura/centro-commerciale-addio/
“Uno dei commenti che scrivo più spesso ai margini di un romanzo da valutare o editare è: sta facendo poesia.Se lo pronunciassi pubblicamente starei dicendo un’inesattezza anche abbastanza fastidiosa, perché nel mio lessico privato quella frase significa: “scrive belle parole a vuoto”, mentre la poesia è tutt’altro che questo, è anzi proprio il contrario di questo: la poesia carica le parole di significato.”
La vidi per la prima volta Nella Galleria Subalpina a Torino. Ero entrato per pigliare una water, che mi aiutasse a digerire la colazione e mi desse appetito pel pranzo. Lei era con un’altra signora, io la osservavo con discrezione e l’ammiravo. Aveva i capelli neri, il viso bianco e gli occhi vivaci, incisivi… Quanto alla bocca era un poema. La vidi nel momento in cui l’apriva per introdurci, con due ditini che parevano due foglie di rosa accartocciate, un marron glacé. Il marron glacé era dei più grossi, e naturalmente lei apriva la bocca a tutta forza come se gridasse; «Aiutoooo!!» Se avesse potuto vederla Giotto proprio in quel momento là! Sarebbe andato a nascondersi lui e il suo o, che doveva essere uno sgorbio, al confronto di quella rotondità di bocca. E che denti! E che freschezza! Quando il marron glacé fu spacciato, le foglie di rosa accartocciate afferrarono una brioche , poi un petit four, poi un crocque en bouche , e l’uno dopo l’altro fecero scomparir tutto nel gelato di fragola. Il croque en bouche fu il colpo di grazia pel mio cuore. Lo zucchero cristallizzato che avvolgeva lo squisito chicco, scricchiolava sotto quei dentini bianchi… cri, cric, cric… Ah, quel cric, cric! La soda water mi salì alla testa, mi andò in gola a traverso, nell’eccesso della commozione. Tossii, tossii fino a diventare violetto. Il pasticciere mi picchiava pietosamente dei pugni sulla schiena, ed intanto udivo la signora che era con lei che diceva: «Sbrighiamoci, è l’ora del pranzo!»
Che Santa Lucia le conservi la vista! L’ora del pranzo! Ah!
Era un tesoro quella fanciulla che andava a pranzo dopo quel preludio di
pasticceria, con accompagnamento di vermouth.
Neppure negli incubi più stravaganti delle mie digestioni
laboriose, avevo mai sognato una donna di stomaco forte come quella giovinetta.
Per tutta la sera, per tutta la notte, l’ebbi sempre in mente.
Secondo Peter Szondi, uno dei più lucidi studiosi di drammaturgia, con il Rinascimento il teatro entra nella dimenzione del fra, cioè dei rapporti intersoggettivi: al di là della trama, che pure è la struttura portante, il vero motore dell’azione è il continuo riposizionarsi (o svelarsi) dei personaggi: tramite il dialogo, naturalmente, ma anche tramite i gesti, i silenzi, il non detto. In questa frammento narrativo, Somerset Maugham sembra realizzare pienamente l’ipotesi drammaturgica di Szondi costruendo una situazione da pochade: Lui ama Lei per vent’anni, ma invano. Una sera, Lei ha un ripensamento, ma (evidentemente) tardivo. Occorre uscire dal cul de sac in cui si sono infilati. Fortunatamente per loro, i due sono attori consumati: se la caveranno facendo ricorso al mestiere, alla finzione e a un’istintiva fiducia nella retorica.
Era evidente che Charles non capiva. E non c’era da stupirsene. Per venti anni lei era rimasta sorda alle sue insistenze appassionate, ed era naturale che lui avesse lasciato ogni speranza. Julia si rese conto che doveva aiutarlo, e disse con dolcezza: «È tardi. Mostratemi questo nuovo disegno che avete comprato, e poi bisognerà che vada a casa». Andarono di sopra. Su una seggiola si vedevano posati con cura il pigiama e la veste da camera. «Che bella camera da letto intima e allegra!», disse Julia. Egli staccò dal muro il disegno incorniciato e lo portò dinanzi a lei: «Vi piace? È un bel disegno…» «Bellissimo». Egli riappese il quadro al suo chiodo. Quando tornò a voltarsi verso di lei la vide che si era avvicinata al letto e stava là con le mani dietro la schiena, un po’ come una schiava circassa presentata da un Grande Eunuco a un Visir. «Che meravigliosa serata!» disse con languore. «Mai mi ero sentita vicino a voi come stasera…» I suoi begli occhi erano pieni di tenerezza e di abbandono, e un sorriso, pure d’abbandono, errava sulle sue labbra. Ma vide il sorriso di Charles congelarsi. Egli aveva capito. «Accidenti» pensò. «Non mi vuole. È stato tutto un bluff.» Per un momento rimase impietrita. «Accidenti», pensò lui «e ora come faccio a cavarmela? Che figura da idiota». Non poteva insistere in quella posa… Doveva trovar subito un ripiego. «Come sono contenta di poter pensare che non abbiamo nulla da rimproverarci. Se avessi tradito mio marito con voi… se fossimo stati amanti… voi vi sareste stancato di me da tanto tempo. Com’erano quei versi di Shelley che dicevate?» «Mai, mai tu puoi baciarla/ Tu non hai la tua felicità, ma il suo amore durerà in eterno.» Be’, meno male, se l’era cavata.
Somerset Maugham, Ritratto di un’attrice, Mondadori, traduzione di Elio Vittorini
Nella carriera leggendaria di Valentina Cortese c’è un gioiello costruito insieme a Truffaut, “Effetto notte”, uno dei film nei quali l’autore mette in scena il cinema, il suo rapporto con gli attori e le sue quotidiane perplessità nel misurare il suo progetto con una quotidianità inafferrabile e provocante come il mercurio. Qui Valentina Cortese gioca con il personaggio della diva in declino, afflitta dall’alcol e, ancor di più, da quella svagatezza, non si sa se metafisica o sapientemente sorniona, che ha fatto di lei una grande icona del nostro teatro del Novecento. Forse l’ultima.
“Che cosa sosteneva Macdonald? Che a fianco della tradizionale distinzione tra la cultura alta (o Highcult), quella degli scrittori e dei musicisti importanti, e la cultura di massa (o Masscult), quella che viene sostanzialmente prodotta dai media, la notevole diffusione dei media di massa (cinema, radio, televisione) stava facendo emergere un nuovo tipo di pubblico che richiedeva un tipo di cultura appositamente realizzata: la cultura media o Midcult.”
“In
un’epoca in cui l’analfabetismo funzionale è tanto diffuso da poter essere
declinato come un insulto che non necessita di
spiegazioni, accertare che uno studente capisca quel che legge è un passo quasi
obbligato.”
Leggi l’articolo: http://www.leparoleelecose.it/?p=36088#more-36088
La tosse del 32 era poetica, dolce, rassegnata. Sembrava quasi una litania, una preghiera, un miserere. Il 36 non aveva ancora imparato a tossire, così come la maggior parte degli uomini soffrono e muoiono senza avere imparato a soffrire e a morire. Il 32 soffriva con arte: con quell’arte del dolore antico, paziente, saggio, che si ritrova per solito soltanto nelle donne. Il 36 si rese conto che la tosse del 32 gli faceva compagnia come una sorella che ti veglia; sì, sembrava tossire per fargli compagnia. Quanto al 32, la tosse del 36 le fece pena e le ispirò simpatia. Ben presto si accorse anche di quanto fosse tragica. «Stiamo cantando un duetto», pensò; e sentì perfino una punta di pudore, come se fosse una cosa sconveniente, un appuntamento nella notte. L’idea di coppia, d’amore, del duetto, nacque prima nel numero 32 che nel 36. La febbre le ridestava un certo misticismo erotico. Erotico! Non è questa la parola. Eros! L’amore sano, pagano, cos’ha a che fare qui? Ma era pure sempre amore, pacifica compagnia nel dolore. E fu così che quello che in effetti voleva dire la tosse del 32 al 36 non era molto lontano dall’essere proprio quello che il 36, nel delirio, credeva di udire: «Sei giovane? Anch’io. Sei solo al mondo? Anch’io. Ti fa orrore l’idea della morte nella solitudine? Anche a me. Se ci conoscessimo! Se ci amassimo! Io potrei essere il tuo rifugio, il tuo conforto. Non ti accorgi dal mio modo di tossire che sono buona, gentile, discreta, casalinga… che saprei fare di questa vita precaria un nido di piuma morbida e dolce… Perché non alzarci, allora? Sì, mettere insieme il nostro dolore? La mia anima lo chiede e anche la tua.» E la malata del 32 udiva nella tosse del 36 qualcosa di molto simile a quello che il 36 desiderava e pensava: «Sì, vengo. Tocca a me, certo. Sono un malato, ma sono anche un uomo, un cavaliere. È mio dovere, vengo…»
Hanno scritto alcuni lettori augurando buone vacanze. Li ringraziamo, ricambiamo, e con l’occasione ricordiamo che il blog non chiude; solo la Galleria si prende una piccola pausa per quanto riguarda la produzione delle novità. Rimane comunque a disposizione del lettori (può essere un’occasione per leggere eventuali post perduti, sono davvero molti). Le pubblicazioni sul blog continuano, anche se con un po’ di affanno dovuto al caldo.