Afu Chan. “I’m no different from a can of pineapple”
Al critico, il compito di parlare meditatamente di un libro solo dopo averne letta l’ultima pagina; al puro e semplice lettore l’arbitrio di segnalarlo, a caldo, subito dopo averlo incominciato. A che servono i Greci e i Romani?, attira fin dal titolo, a parte l’importanza del suo autore, s’intende: la domanda, così franca e diretta, “mette i piedi nel piatto”, ma lo fa con la grazia dell’aristocratico che può permetterselo. Dunque, servono questi Greci e questi Romani? Dalle prime pagine si direbbe proprio di sì, e credo che Bettini ce lo dimostrerà con la sua scrittura limpida, ma non prima di aver smontato con gli strumenti del filologo i ponteggi ingannevoli che sorreggono il concetto di beni culturali.
Intendere la cultura come «bene» significa sì riconoscerne il rilievo e l’importanza – se si parlasse di «mali culturali» sarebbe peggio – ma implica anche equipararla a un oggetto economico: sia da custodire (quasi fossero gioielli depositati in una cassetta di sicurezza), sia da sfruttare per ricavarne profitto (alla maniera di un portafoglio azionario o di un appezzamento di terra). Non v’è dubbio che nell’ottica contemporanea i nostri «beni culturali» vengano intesi in entrambe queste accezioni, con una crescente enfasi sulla seconda. Quando nei media si critica il modo in cui tali «beni» sono gestiti, infatti, oltre che lamentare la scarsa tutela di cui sono oggetto, sempre più spesso si mette in evidenza l’incapacità di trarne il profitto che potrebbero produrre. Lamentele a cui generalmente seguono risentiti confronti con il numero dei biglietti staccati dal Museo del Louvre, o da altre grandi istituzioni culturali mondiali. Non c’è dubbio che i nostri «beni culturali» – ossia monumenti, musei, biblioteche, e così via – suscitino sempre più riflessioni a carattere economico, come del resto non può non avvenire quando si parla di oggetti definiti «beni».
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Sullo scaffale contiguo a quello che contiene le espressioni che ruotano intorno ai «beni» culturali, stanno poi le metafore, ugualmente tratte dal mercato, ormai comunemente impiegate per descrivere quanto si fa nelle università. A cominciare dalla «valutazione», quella a cui viene ormai regolarmente sottoposta la ricerca che si volge in quest’ambito. Intendiamoci, non c’è nulla di male a valutare la ricerca, anzi, c’è molto di bene, ed era ora che si cominciasse a farlo. In ogni caso non va dimenticato che «valutazione» costituisce un sostantivo astratto da «valuta» e propriamente designa la «determinazione del valore di un bene ragguagliato in moneta». Si tratta dunque di una parola che ci viene specificamente dalla sfera finanziaria. Il che, di per sé, non desterebbe particolare allarme se alla valutazione dell’anvur (l’Agenzia nazionale di Valutazione dell’Università e della Ricerca) gli studiosi e i ricercatori sottoponessero, che so, ricerche, articoli, libri o risultati di esperimenti, come sembrerebbe ovvio. Invece no: anche gli studiosi di scienze umane o sociali, o i ricercatori attivi nelle discipline di base, alla «valutazione» sottopongono «prodotti». Un libro dedicato al poeta ellenistico Callimaco, una ricerca sulla coordinazione in ittita o un esperimento dedicato al bosone di Higgs, vengono cioè definiti tramite lo stesso sostantivo – «prodotti» – con cui si designa una scatola di biscotti o un cuscinetto a sfera “prodotti” (per l’appunto) da una qualche azienda.
Nessuna meraviglia, dunque, che siano ormai numerosi i corsi universitari, master o dottorati che vengono proclamati – o che più spesso che si sono proclamati – «eccellenze» del nostro paese: proprio come «eccellenze» locali o regionali sono definiti certi prodotti gastronomici, salumi, formaggi, vini o tartufi che siano. Sempre secondo la stessa logica metaforica, inoltre, i corsi universitari, che una volta si dividevano semplicemente in fondamentali e complementari, oggi hanno un «valore» chiesi misura in «crediti»; e tutti insieme non costituiscono più il programma degli insegnamenti, ma forniscono la «offerta» formativa di un tenero. Coerentemente con queste metafore creditizie, quando si riflette sulla validità della formazione intellettuale non ci si preoccupa tanto della profondità o autenticità delle conoscenze acquisite, come sembrerebbe naturale, quanto della «spendibilità» di questi saperi: come se si trattasse appunti di gruzzoli, o di titoli di credito, non di complesse (e astratte) costruzioni intellettuali.
Maurizio Bettini, A che servono i Greci e i Romani?, Einaudi