Il video della domenica. JEAN COCTEAU, LA VOCE UMANA (Anna Magnani)

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http://youtu.be/78KPiLDxfFo

Uno dei più famosi monologhi della storia del teatro, il sogno proibito, e purtroppo a volte anche realizzato, di molte attrici di qualche generazione fa. Oggi è scarsamente rappresentato, forse per un cresciuto senso critico delle nostre interpreti – o più probabilmente perché viene considerato troppo minimale e tutto sommato polveroso: una donna telefona all’amante che l’ha appena lasciata e al quale non chiede niente se non di prolungare lo strazio del distacco. E’ tutto qui, ma la scrittura di Cocteau offre all’interprete occasioni straordinarie di mettere in gioco la sua gamma espressiva – e Anna Magnani  fornisce una delle sue più prove più intense e al tempo stesso misurate.
(Il video integrale è disponibile su youtube)

Foto storiche. 1961, LA CONTEMPLAZIONE DEL PROSCIUTTO

foto storiche supermercato“La spesa si fa col carrello” è lo slogan col quale i supermercati incominciano l’occupazione del territorio nazionale, nel 1961. Il tono del messaggio è perentorio: se vuoi agganciare la modernità, impara a guidare il carrello – visto che non hai la patente e comunque tuo marito non ti lascerebbe toccare la sua macchina, Irene, con la quale intrattiene un rapporto morboso che si manifesta, oltre che nei toccamenti, anche nei frequenti regalini: cani lupo che dondolano la testa, cuscini di peluche, targhette similoro di San Cristoforo, ecc. La tua macchina è dunque il carrello, scendi in pista; le barzellette del fruttarolo e la spocchia del macellaio che ti guarda dall’alto del suo bancone come se fosse un giudice appartengono al passato.
Le signore ritratte nella foto prendono seriamente il loro ruolo di consumatrici responsabili: la più adulta (forse zia) compara i prezzi fingendo una competenza che non ha, ma alla quale la più giovane adepta – donna tendenzialmente insicura e sottomessa – crede senza riserve. La signora più discosta, dal profilo altoatesino, esprime un atteggiamento cauto: la memoria del maso e dell’0rticello sono ancora vive in lei; forse questa sua è solo una prima ricognizione, la prossima volta comprerà. L’unico che sembra indifferente a questa svolta epocale è il bimbo col berrettino oxfordiano; sta pensando che fino a qualche giorno fa era meno noioso fare la spesa con la mamma: il salumiere lo chiamava “giovanotto” e la panettiera gli allungava un grissino o un biscotto. Tentando di decifrare il Nuovo, appoggia la guancia pensosa sul metallo; il suo sguardo inquadra una vaschetta di prosciutto che manda plastici barbagli; sente che le palpebre si fanno pesanti e che la mente si riempie di una bambagia leggera; veleggia in una dimensione di mezzo, fra la meditazione e l’ipnosi: con gli anni, questo piacevole fluttuare verrà meno e il supermercato si rivelerà per quello che è, il tempio della noia.

Guardando dietro alla “Grande bellezza”. CLAUDIO CALIGARI, NON ESSERE CATTIVO

non essere cattivoNon vogliono essere una recensione cinematografica od un omaggio comunque meritato per un regista da sempre messo ai margini, bensì queste poche righe hanno l’ambizione di una rinnovata scoperta, accesa nel buio di una sala purtroppo semivuota, per l’ultima opera postuma di Claudio Caligari, anzi per tutte le sue (poche per demerito del mondo produttivo) prove cinematografiche.
E la scoperta non è quella del mondo delle borgate romane, troppo spesso vittima di stereotipi culturali e di luoghi comuni produttivi in nome di un cinema di effetto ma molto poco “ribelle” e incisivo, è invece la scoperta che questo è un mondo in cui l’umanità dell’uomo è ancora sorprendentemente profonda, profonda e quasi paradossalmente difesa contro le offese continue e la stanchezza sempre dietro l’angolo.
Un mondo, ed è inevitabile qui ricordare il Pasolini del dopo neo-realismo, che di quella umanità, solo all’apparenza semplice, sopravvive, che di quella umanità, fatta di sentimenti e relazioni dai contorni antichi e poco praticati, si nutre e che, con quella stessa umanità, si difende dalla disgregazione e dall’atomizzazione che le società opulente o meglio la parte opulenta della società continua a diffondere come un virus, un virus di cui la droga e l’eroina in particolare appaiono solo l’immagine più concreta.
Con “Non essere cattivo”, titolo di una forza inaspettata, Claudio Caligari continua, come sempre ha fatto, a guardare dietro le cose per farci capire che quasi mai la povertà economica e sociale è una scelta e che spesso, lo fa con pochi e accurati movimenti di macchina, la povertà “morale” alberga altrove.

Maria Dolores Pesce

Il video della domenica. UNO SCHELETRO NELL’ARMADIO, ANZI UN CONIGLIO. (Spot 30″)

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Lucia è una ragazza che, come si suol dire ha fatto strada, lo testimonia il suo vestito da un migliaio di euro e soprattutto il fatto che ha il privilegio di far parte di un’équipe di yesman imbalsamati seduti nella sala riunioni di una prestigiosa azienda – che però, forse, chiuderà i battenti, visto che “I risultati del primo trimestre sono deludenti”,  come dice il capo in apertura. Come molti personaggi di successo, anche Lucia ha il suo scheletro nell’armadio, il suo vizietto inconfessabile: un uomo/coniglio, per di più rosa. Ora, può capitare a tutte di essere perseguitate da uno spasimante idiota e naturalmente noi solidarizziamo con Lucia, ma ci stupisce la reazione molto, troppo blanda della ragazza che mormora in labiale:”Scendi giù”. Che cos’è quel tu? La giovane manager intrattiene un qualche rapporto con l’aspirante roditore? Sembra proprio di sì, e ne abbiamo la conferma qualche attimo dopo, quando la vediamo seduta su una panchina mentre sgranocchia, tutta sorridente, biscotti Galbusera appoggiandosi in modo ambiguo al coniglione. Non sa che il capo, nel frattempo, si è affacciato alla finestra e, inorridito, l’ha licenziata. 

Foto storiche. UN PIU’ CHE COMPRENSIBILE MALUMORE

naziLa foto è stata scattata nel 1985, in una non  meglio precisata città tedesca. L’occasione è drammatica (perché una sfilata di neonazisti non è folclore), così come lo è il vissuto della signora sulla destra dell’inquadratura: un’ex deportata, sfuggita a un campo di sterminio. Ma nel clic del fotografo c’è il comico, che del drammatico è l’occasionale complemento. La donna che colpisce l’uomo con un colpo di borsa è un topos della comicità che il cinema ha ampiamente sfruttato: scagliato in qualunque altra parte del corpo può esprimere rabbia, dispetto o perfino civetteria: sulla testa, implica un non so che di zucca vuota che fa sorridere; la violenza del colpire si stempera, contraddice la natura tutto sommato innocua dell’oggetto contundente – non è proprio come quando i bambini fanno a cuscinate ma poco di più. E’ difficile immaginare, per chi non l’ha vissuto,  cosa può passare per la mente di un ex detenuta in un lager quando vede una sfilata di giovanotti targati con la svastica ma la sproporzione, per così dire storica,  fra l’orrore che dovette vivere la signora e la sua reazione è evidente. Una borsettata, sia pure tirata con una certa energia, come in questo caso, sul cranio lucido del giovanotto impettito è come il buffetto di una paciosa zia che per un attimo ha perso la pazienza ma che solitamente è abitata  una saggezza profonda, appresa dalla sofferenza.

La Striscia, NICOLAJ GOGOL

striscia testata

Il barbiere Ivan Jakivkevic si destò piuttosto per tempo e un odore di pane caldo gli sollecitò le narici. Sollevandosi un pochino sul letto egli vide che la sua consorte, signora e alla quale piaceva molto il caffè, stava tirando fuori dal forno del pane appena cotto.
«Oggi io non berrò il caffè, desidero invece mangiare del pane caldo con cipolla».
«Che quello sciocco mangi pure del pane», pensò tra sé la sua consorte, «tanto meglio: ci sarà una tazza di caffè in più per me».
Ivan Jakovlevich si accinse a tagliare il pane in due metà, ma gettandoci un’occhiata vi scorse qualcosa che biancheggiava. Ivan Jakovlevich stuzzicò con il coltello quell’affare bianco, quindi lo palpò con un dito.
«È consistente… che cosa potrà mai essere?»
Ficcò due dita nel pane e ne tirò fuori… un naso!

Nicolaj Gogol, Il naso, De Agostini, Traduzione G. Pacini

 

JANIS, UN CAPRO ESPIATORIO “RIBELLE”

janis joplinJanis canta Summertime (1968)

https://www.youtube.com/watch?v=ZXkW9t5dH8I

Janis Joplin era una ragazza che ha ricevuto il dono, misterioso e affascinante, del canto. Era una ragazza come tante, forse interiormente più contraddittoria, ma la cui “bellezza” non riusciva ad essere riconosciuta da quella provincia americana degli anni Cinquanta ricca solo di stereotipi e pregiudizi. E quei pregiudizi, mescolati a luoghi comuni e immagini/pensieri indotti e passivamente accettati, li ha sofferti profondamente e pesantemente fino alla emarginazione e alla beffa più atroce (nel giornale del college fu eletta dai suoi coetanei “l’uomo più brutto” dell’università).
Ma Janis Joplin è riuscita a trovare nel canto e nella sua voce straordinaria la via della sua liberazione, una liberazione che però va oltre gli stessi schemi e stereotipi della “rivoluzione”, purtroppo solo musicale, della San Francisco degli anni Sessanta. Perché la sua liberazione personale è anche, se non soprattutto, un tentativo, una offerta di riscatto di tutto quel mondo di relazioni anche affettive, a partire dalla famiglia e dagli stessi compagni e luoghi di un tempo, che pure non l’avevano capita, continuando a non capirla, e da cui voleva, sempre e testardamente, essere riconosciuta e dunque “amata” solo per quello che effettivamente era, come tanti di noi.
Una ribellione ed una liberazione dunque che sono diventati una sorta di “sacrificio”, ma un sacrificarsi non indotto o costretto, bensì agito e quasi rivendicato a riscattare tutto quel mondo la cui sofferenza e limitatezza ha sempre vissuto empaticamente, fin in maniera osmotica, dai perduti riti della Port Arthur della sua infanzia e adolescenza.
La stessa “pratica” sempre più accentuata della droga e dell’alcool non appaiono così il “facile” crisma generazionale della sua ribellione, ma quasi il tentativo di attenuare quel dolore che l’ha sempre attraversata e che ha provato sempre, senza riuscirvi in altro modo, a superare.
Che la sua morte sia il risultato di un “errore” o di un tentativo non più rimosso di suicidio poco importa oggi, quello che importa è che quel gesto appare l’ultima frattura tra Janis e noi, l’ultima frattura che forse avrebbe potuto ma non è stata più ricomposta, una frattura che riguarda e riguarderà molto più ciascuno di noi che Janis Joplin, il cui offrirsi sofferto e consapevole sopravvive ora nelle sue musiche.
“Janis” è il titolo del bel documentario (biopic come si dice oggi) di Amy Berg che con sapienza e rispetto narra tutto questo.

Maria Dolores Pesce

Il video della domenica. Il latte del diavolo. FELLINI, BOCCACCIO 70

anitahttps://www.youtube.com/watch?v=Vy3NeeA4p8c

Fellini odiava la pubblicità, è noto. “Non s’interrompe un’emozione”, dichiarò a proposito degli spot che rendevano singhiozzante la trasmissione dei film in tv. Ma poiché non si può fare a meno di essere attratti irresistibilmente da ciò che si odia, poco dopo la nobile invettiva il Maestro girò a sua volta tre spot televisivi con Paolo Villaggio. La repulsione/attrazione veniva tuttavia da lontano, almeno dal 1962, quando Fellini firmò “Le tentazioni del dottor Antonio”, un episodio del film “Boccaccio 70”, nel quale compie l’apoteosi di Anita Ekberg, reduce dalla “Dolce vita”,  trasformandola in una gigantessa sdraiata e occupante un immenso cartellone che fa pubblicità al latte. S’innesca un vorticoso carosello di simboli trasparenti: il latte, il seno di non so quanti metri quadrati, la Ekberg che, nell’immaginario italiano da sacrestia, è una sacerdotessa del libero amore… Il tentacolare messaggio è devastante per il timorato dottor Antonio Mazzuolo, un Peppino De Filippo che si cala impavido nel ruolo di un macchiettistico moralista. Per Fellini, autore che gioca sull’autobiografia per interposta persona, si tratta di una carambola fortemente autoironica: nella “Dolce vita” il suo alter ego era il fascinoso Marcello, qui è il il dottor Antonio, un pupazzetto che si dibatte fra le spire ( i seni) della smisurata diavolessa. Infinite sono le facce dell’Io che Fellini si diverte a evocare nei suoi film, da quell’impunito mentitore che si vantava di essere.

Foto storiche. 1973, NEL NOME DI JESUS. Con un intervento di Pierpaolo Pasolini

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In questo 1973 si parla molto delle Br e dei loro sequestri, di Mario Capanna e delle manifestazioni studentesche a Milano, ma ciò che divide davvero l’Italia è un esercito di manifesti pubblicitari che invade le città provocando turbamenti simili a quelli che la smisurata Anita Ekberg di “Boccaccio 70” causava nella psiche del timoratissimo Antonio Mazzuolo (Peppino De Filippo). Blasfemia o modernità? Chi invoca la scomunica, chi inneggia al vento del nuovo, così malizioso e potente da scoperchiare una certa porzione (circa il 20%, direi) dei sederi femminili. Per non dire dello slogan che innesca le fantasie di quelli che venivano chiamati, con patetico eufemismo, pappagalli stradali.
Nonostante oggi possa apparire una povera cosa, il dibattito intorno a questa immagine divampò. Se ne occupò anche Pierpaolo Pasolini, addirittura. Potete leggere il suo articolo sul Corriere della sera.
http://www.lintellettualedissidente.it/rassegna-stampa/analisi-linguistica-di-uno-slogan-pier-paolo-pasolini/

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BERTOLT BRECHT, PRIMA DI TUTTO

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Qualche tempo fa, mi venne da citare questa breve poesia di Brecht parlando con un amico il quale, pur conoscendola, si stupì non poco quando gli dissi che questa “storiella” (mi pare proprio di ricordare che l’avesse definita così) aveva un autore; non ho capito bene cosa pensava che fosse: una battuta che circola su internet, lo slogan di un deputato progressista… chi lo sa, molti utenti della rete e del suo sapere in pillole hanno un magazzino mentale del tutto privo di scaffali, dove tutto si ammucchia. Diamo il nostro minuscolo contributo incominciando a ricollocare nello scaffale giusto  questa “storiella”, che ha un autore, si chiama Bertolt Brecht.

Bertolt Brecht, Prima di tutto

Prima di tutto vennero a prendere gli zingari
e fui contento perché rubacchiavano.
Poi vennero a prendere gli ebrei
e stetti zitto perché mi stavano antipatici.
Poi vennero a prendere gli omosessuali
e fui sollevato perché mi erano fastidiosi.
Poi vennero a prendere i comunisti
ed io non dissi niente perché non ero comunista.
Un giorno vennero a prendere me
e non c’era rimasto nessuno a protestare.

Bertolt Brecht, Poesie, Einaudi, Traduzione Franco Fortini

IL VIDEO DELLA DOMENICA. I Simpson in salsa francese serviti da un grande disegnatore, SYLVAIN CHAUMET

simpson senza cornice

https://www.youtube.com/watch?v=PAXpfo8KyEA

 Sylvain Chomet, oltre ad essere un maestro del cinema d’animazione (La vieille dame et les pigeons, Appuntamento a Belleville, L’illusioniste) è profondamente francese, nonostante abbia incominciato a lavorare a Londra per poi trasferirsi in Canada; anzi, più che francese: lo testimoniano la sua propensione per la polvere, i tappeti di cattivo gusto, e una certa attrazione per tutto ciò che è démodé (non subire il ricatto di essere à la page è la forma più sotterranea del dandismo). Questo piccolo frammento sui Simpson “francesizzati” è un sottile e forse autoironico esercizio di bella calligrafia. 

Foto storiche. L’UOMO CON LE BRACCIA CONSERTE

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 Norimberga, 1937. Ci vogliono nervi molto saldi per non alzare il braccio a un’adunata nazista di queste proporzioni. Per quello che si può vedere, il viso dell’uomo a braccia conserte non esprime una fiera determinazione al martirio ma un sentimento più leggero e più laico. Guarda il palco stringendo gli occhi come quando si ha il sole in faccia. Può anche darsi che sia miope ma sicuramente è quello che ci vede meglio di tutti, nel suo chissà quanto consapevole eroismo.

Scene da un matrimonio al tempi di Prostamol. video 20″

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www.youtube.com/watch?v=I4-tYfriPDo

La coppia non è più giovanissima. Lei appare un po’ spenta, vorrebbe rifugiarsi nel sonno, povera donna, ma non può perché il marito, punzecchiato da una prostata dispettosa, deve compiere numerosi raid notturni in bagno. La maggior parte dei mariti sbriga queste fastidiose incombenze barcollando fra sonno e veglia con qualche interiore mugolio; questo, invece, pretende di giustificarsi e sveglia tutte le volte la moglie per addurre una scusa che motivi il suo andirivieni: il televisore acceso, la porta del garage rimasta aperta… Bisogna dire che la malmaritata è tutto sommato di buon carattere perché dopo l’ennesimo risveglio non reagisce con una scenata ma si limita a guardare il suo scimunito con uno sguardo sgomento; nei racconti delle amiche coetanee, i mariti mentono per coprire frettolosi adulteri con le colleghe dell’ufficio; il suo bambinone, nonostante la barbetta pepe e sale, dice le bugie per andare a fare la pipì. Si può capire la riservatezza, e perfino un vago senso d’imbarazzo per una prostata indurita ma è insensato pensare di nasconderlo a una moglie, la quale peraltro ha già fatto sicuramente la sua diagnosi ripercorrendo il film dei recenti rapporti coniugali. Poi entra in scena Prostamol e il vecchio ragazzo, soddisfatto della sua prostata flessuosa, promette di non dire più bugie, ma si ha l’impressione che sia un finale aperto; è probabile (e augurabile) che nella prossima puntata intervenga lo psicologo.

Il video della domenica. Io, il vuoto e una canzone. ANTONIO PIETRANGELI, IO LA CONOSCEVO BENE

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Stefania Sandrelli in una scena del film mentre ascolta Mina che canta “E se domani”

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 Io la conoscevo bene è stato inserito nella lista dei cento film italiani da salvare, mi pare al 75° posto. E’ meglio sorvolare sul malumore che provocano liste del genere: le cose non vanno tanto bene, nel cinema italiano, ma non siamo al naufragio, direi, e non è quindi necessario eliminare nessuno, sulle scialuppe devono trovare posto tutti in ordine sparso..
Liste a parte, dunque,ad il film è splendido, e va visto nella sua versione integrale. Cosa racconta? Il vuoto: della ragazza Adriana, ma anche della vita. Forse racconta dell’impossibilità di raccontare, oppure del limite che ogni narratore (anche quello cinematografico) deve accettare. Ma questo vuoto, per essere rappresentato, deve trovare una forma; Pietrangeli inventa una straordinaria Sandrelli, allora diciannovenne (il film è del 1965) che offre il suo fascino maiolicato e indecifrabile al quotidiano squallore del mondo circostante dal quale sbocciano, come fiori, le canzoni; sono nicchie salvifiche nelle quali Adriana cerca rifugio e nutrimento, senza rendersi conto che quelle enclave sentimentali non la nutriranno ma anzi accentueranno il distacco da un mondo che le appare, non a torto, privo di senso.

La sinfonia concertante di Cagliari. SERGIO ATZENI, BELLAS MARIPOSAS

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fotogramma dal film Bellas Mariposas, di Salvatore Mereu

A vederla dal mare, con il sole che batte a picco e il calore che confonde lo sguardo, Cagliari appare ocra e dorata, rosa di riflessi di luce e dei fenicotteri del Poetto, arroccata lì immobile, imponente. Silenziosa. Poi ci si addentra ed è tutto sguardo movimento e voce: dai balconi si sbirciano i passanti, i spassanti sbirciano i balconi, tra un saluto e una contrattazione volano parole che l’istrangiu, lo straniero, decifra a volte osservando la mimica, a volte per niente. I vicoli più stretti fanno da cassa di risonanza. Qua e là, musica. È questo gran vociare che risuona in Bellas Mariposas di Sergio Atzeni, un vociare fatto di televisori accesi, vecchie che rimbrottano i ragazzi in tram, ragazzine che corrono col gelato in mano, fattucchiere con gatti a seguito, strade losche e spiagge affollate, vicine strillone e risibili mariti babbasoni. E racconti che si sovrappongono e si mescolano senza pause né punteggiatura, un unico fiato lungo la giornata di una dodicenne, scandito dal ritmo di frasi che paiono pensierini affilatissimi.

Roberta Sapino

Signora Sias si è svegliata con gan’e kagai

E ha cominciato: Federico! Federico!

Lo dice dieci volte o anche dodici perché il marito signor Federico dorme nella vasca da bagno e si mette la cera nelle orecchie per non sentire la moglie che lo chiama alle tre del mattino

Questo spiega quanto è babbasone signor Federico tanto lei prima o poi con quel cazzo di voce che sembra la distorsione di un amplificatore guasto da duecento watt lo sveglia non c’è speranza o la speranza è minima

Però intanto che lui resiste tutta la palazzina 47 C di via Gorbaglius quartiere Santa Lamenera periferia di Kasteddu tutti ci svegliamo

Federico! Federico! […]

Signor Federico non ha mai lavorato un giorno in tutta la vita ha sempre sfruttato la moglie prima facendola bagassa poi donna di pulizie al mercato all’ingrosso (arrotonda facendo servizietti ai macellai)

Però se signor Federico non porta il vaso alle tre del mattino e lei si alza e va al cesso le viene mal di schiena e non può andare a lavorare e se signor Federico la arroppa lei non va a lavorare per tre o sette giorni perciò lui non la arroppa si mette la cera nelle orecchie dorme nella vasca da bagno chiude tutte le porte fra la stanza da letto e il cesso e si addormenta

Alle tre lei comincia a strillare Federico!

Finzas a candu lui le porta il vaso da notte e lei caga cantando perché se non canta non riesce

Canta canzoni di moda

Penso positivo di Iovanotti l’ha cantata almeno trenta notti di seguito babbo ha detto Se non cambia canzone mi compro una mitraglia e una di queste notti faccio Rambo sfondo la porta e bocciu a issa e a cuddu calloni tuntu

Sergio Atzeni, Bellas mariposas, Sellerio Editore