Le figurine di Radiospazio. La felicità

Philip pensò che abbandonando il desiderio di felicità egli abbandonava l’ultima delle sue illusioni. La sua vita era orribile se misurata col metro della felicità, ma ora gli sembrava di trarre forza dal rendersi conto che si poteva misurarla con qualcos’altro. La felicità non contava, come non contava la sofferenza. L’una e l’altra contribuivano, come ogni dettaglio della vita, all’elaborazione del disegno. Gli sembrò per un attimo di essere al disopra dei casi della sua esistenza, e sentì che essi non avrebbero più potuto toccarlo come in passato. Qualunque cosa gli accadesse sarebbe stata un motivo in più da aggiungere alla complessità del disegno, e all’avvicinarsi della fine egli avrebbe gioito del compimento di quest’ultimo. Sarebbe stato un’opera d’arte, e non meno bella perché lui soltanto ne conosceva l’esistenza, e perché con la sua morte il disegno avrebbe cessato di esistere. Philip era felice.

Somerset Maugham, Schiavo d’amore, Adelphi, Traduzione F. Salvatorelli

Le scimmie di mare, 18ª puntata

E finalmente iniziarono gli arrivi.
Camion autocisterna Howo, tutti gialli, altezza sette metri, capienza 35.000 litri ciascuno, guidati da autisti giapponesi impermeabili alla folla festante, ai bambini che ruzzolavano fra le ruote giganti, al sindaco che venne travolto mentre leggeva un breve discorso di benvenuto.
Le vecchie contavano i camion come fossero i grani di un rosario che non finiva più:
– 111… 112… 113…
– Ma quali 113? Sono già 127.
– Zitta, che perdo il conto!
– Fa’ un po’ come ti pare. 128…129… 130…
Alla fine, la maestra decise che gli Howo gialli erano 200.
Problema: moltiplicando la capienza di ogni singolo camion (35.000 litri) per il numero dei veicoli, a quanto ammontava il totale dei liquidi trasportati?
In groppa a una Suzuki 1000, Bob coordinava l’invasione delle autocisterne, coadiuvato da una dozzina di teppisti motorizzati che si divertivano un sacco a zigzagare fra i mostri giapponesi mentre li scortavano fino all’Arena Smisurata dove li aspettava la Signora insieme a un’équipe di ingegneri idraulici.
Dopo tre giorni di travaso ininterrotto, all’alba del quarto, l’ultimo Howo fece retromarcia e raggiunse la colonna degli altri centonovantanove.
La Signora licenziò gli ingegneri e andò a sedersi in una cabina di vetro sul gradone più alto dell’Arena. Tutta sola, contemplò i sette milioni di litri d’acqua azzurro-verde ancora immobili nel sonno che precede la vita.
Come una primipara all’ultimo mese, combattuta fra l’impazienza di stringere al petto la sua creatura e il piacere di prolungare l’attesa, la Signora rimase a lungo incerta se premere un grande pulsante rosso con su scritto START.
Dopo un’ora di spasmi e delizie, decise che ne aveva abbastanza. Premette.
La superficie inerte delle acque prese ad animarsi con un su e giù pigro come il respiro di un gigante addormentato sul fondo, poi con affanno crescente, così che si formarono piccole onde sormontate da crestine bianche e leggere.

La macchina funzionava.
Verso le cinque del mattino, la Signora venne a bussare alla mia camera. Doveva essere molto eccitata, perché di solito comunicava con me solo tramite l’ufficio stampa. Bussava e scalciava la porta.
– Su, presto, si alzi!
– Che ore sono?
– Non ha importanza, lei deve essere il primo a vedere! – Che cosa?
– Il mare!
–…
– Ricorda quando le dissi, un pomeriggio: “Sarebbe straordinario se il mare arrivasse fin qui.”
–…
– Non ci credeva, vero? Mi guardava come un rottame di vedova che si era bevuta il cervello.
– Beh, a quei tempi ci dava piuttosto dentro con la bottiglia.
La serratura cedette, era inevitabile.
La Signora entrò, mi sollevò così com’ero e mi trascinò fino all’Arena. Salì nella cabina di vetro e spinse i comandi al massimo. I seni immaturi delle ondine si gonfiarono fino a trasformarsi nei pettorali di cavalloni membruti che eseguivano un adagio sontuoso e sempre uguale.

Il mare, il mare, sempre ricominciato!
Paul Valéry, Il cimitero marino

Tema: “La prima volta che avete visto il mare.”
La prima volta che ho visto il mare, tutto sapeva di malaticcio, l’acqua, le poche case ancora in piedi, la rotonda e i muri del bar Milano, la signora affittacamere che ci aveva rimediato due stanze.
La cosa più in salute era un bunker dell’alleato germanico che sembrava bruciato di fresco. Sotto una botola c’erano ancora i soldati morti, dicevano.
Tuttavia, su quella spiaggia spenta dalla guerra spuntava qualche pallone a spicchi bianchi e blu inseguito da un bimbetto smunto, ma con un costumino così rosso che sembrava uno squillo di bandiera. Sulle sabbie se ne stavano appoggiate alcune madri, floride come le aveva plasmate il Duce, con i seni che gemevano dentro un costume a fioroni.
Non era ancora una vita, ma insomma.
Poi i bagnini impugnarono picchetti e mazzuoli e piantarono le prime tende rettangolari come vele fenicie.
Poi con i primi guadagni incominciarono a curare il loro aspetto.
Poi impararono a sorridere coi nuovi denti d’oro alle matrone mussoliniane, e quel brillio di incisivi e molari ammiccava a una nuova età ancora indecifrabile ma già leggendaria.
Poi il mare riprese un po’ di colore, così che i bagnanti abituali dicevano: «Per essere l’Adriatico, ha qualcosa del Mar di Sardegna, non trovi?»
Poi i grandi hotel fecero un restyling radicale, così da sembrare meno fascisti di vent’anni prima.
Poi nacque una miriade di pensioncine settimine che fornivano pulizia, lasagne e buonumore a prezzi stracciati, così che pareva di stare in una riviera socialista.
Poi vennero le famiglie, di corsa, con i bambini piccoli perché non c’erano pericoli, tutto appariva liscio e piatto, e il mare declinava dolcemente, così che ci potevi passeggiare dentro come in città.
Poi, in alta stagione, tre ragazze furono violentate nella pineta a distanza di dieci giorni una dall’altra, così che molti giovani attirati dall’odore del sangue giunsero da ogni parte del Paese cavalcando le moto dai grandi tubi incandescenti.
Poi, da sotto gli ombrelloni, i bagnanti videro spuntare piedi neri che aravano le sabbie bollenti del litorale avanti e indietro, e alzando gli occhi scoprirono interi corpi dello stesso nero nascosti da pesanti tappeti.
–  Pensa tu il caldo che devono avere là sotto, dice lei.
–  Ieri è affondato un altro barcone, si vede che non era il loro, dice lui.
Poi non so, non sono più andato.

Nonostante gli stupri, i gelati dai gusti tutti uguali, i padri di famiglia a passeggio col pacco in rilievo, le figlie trasudanti olio solare, i tramonti di seconda mano, le luci di 40 watt nelle pensioni, era un mare più accettabile di quello ricreato nella Grande Arena, immobile e composto in un rigor mortis deprimente. Si animava solo quando arrivava la Signora che ci passava delle mezze giornate tutta sola nella cabina di vetro. Aveva subito imparato a smanettare sul quadro comandi e governava le onde secondo il suo capriccio; ne determinava la lunghezza (distanza fra due creste successiveg l); l’altezza (distanza tra il livello delle creste e quello delle gole: h), la ripidità (rapporto fra altezza e lunghezza: h/l). Ma, come molti virtuosi della tastiera, la Signora spesso cadeva preda dei suoi umori, spegneva tutto e se ne andava senza neanche voltarsi. Le onde rimanevano lì come delle stupide, poi non sapendo che fare si sgonfiavano e ritornavano semplice acqua.
Non gli passava neanche per la testa, a quelle schiumette vuote, che il comportamento della padrona nascesse dall’insoddisfazione di chi anela all’alto, un Alto vertiginoso e troppo complesso per la loro piatta superficie. Io però me ne accorsi e incominciai a temere.

(Continua)

Leggi le puntate precedenti:

1ª puntata https://wordpress.com/post/radiospazioteatro.wordpress.com/23112
2ª puntata https://wordpress.com/post/radiospazioteatro.wordpress.com/23117
3ª puntata https://wordpress.com/post/radiospazioteatro.wordpress.com/23125
4ª puntata https://wordpress.com/post/radiospazioteatro.wordpress.com/23138
5ª puntata https://radiospazioteatro.wordpress.com/wp-admin/post.php?post=23148&action=edit&calypsoify=1&block-editor=1&frame-nonce=22422974b9&origin=https%3A%2F%2Fwordpress.com&environment-id=production&support_user&_support_token
6ª puntata https://wordpress.com/post/radiospazioteatro.wordpress.com/23156
7ª puntata https://wordpress.com/post/radiospazioteatro.wordpress.com/23169
8ª puntata
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9ª puntata https://radiospazioteatro.wordpress.com/2023/08/27/le-scimmie-di-mare-feuilleton-9a-puntata/
10ª puntata https://wordpress.com/post/radiospazioteatro.wordpress.com/23275
11ª puntata https://radiospazioteatro.wordpress.com/?s=le+scimmie+di+mare+feuilleton+11%C2%AA+puntata
12ª puntata https://radiospazioteatro.wordpress.com/2023/09/17/le-scimmie-di-mare-12a-puntata/
13ª puntata https://radiospazioteatro.wordpress.com/wp-admin/post.php?post=23477&action=edit&calypsoify=1&block-editor=1&frame-nonce=1c1693b818&origin=https%3A%2F%2Fwordpress.com&environment-id=production&support_user&_support_token
14ª puntata https://wordpress.com/post/radiospazioteatro.wordpress.com/23497
15ª puntata https://wordpress.com/post/radiospazioteatro.wordpress.com/23526
16ªpuntata https://wordpress.com/post/radiospazioteatro.wordpress.com/23547
17ª puntata  https://wordpress.com/post/radiospazioteatro.wordpress.com/23617

Ivano Dionigi, La faccia e il volto (frammento)

Noi siamo tempo. Lo dice la finitudine del nostro corpo, che è «il libro del tempo»2; lo dice il nostro «volto», al quale ormai da tempo preferiamo la «faccia»: aspetto esteriore, sembianza, apparenza. Parola simbolo dei nostri giorni, così fortunata e pervasiva da eclissare e sostituire «volto», parola ben più ricca e dinamica, che evoca la sfera dell’animo e lo svolgersi del tempo (da volvere, «far girare, far scorrere»). È il volto che manifesta, misura e ritma l’età non solo anagrafica ma anche interiore, i moti di gioia e dolore, di serenità e turbamento, di bontà e cattiveria. Pensiamo al volto luminoso e miracoloso di un bimbo, di una giovane donna, di un vecchio. Volontà e sentimenti sono testimoniati dal volto e non dalla faccia. Questo dice la lingua con Isidoro: «Tra faccia e volto è dunque una differenza; faccia designa semplicemente l’aspetto naturale di ciascuno, mentre volto esprime gli stati d’animo» (Etimologie 11, 1, 34: Et differunt sibi utraque. Nam facies simpliciter accipitur de uniuscuiusque naturali aspectu; vultus autem animorum qualitatem significat); questo dice l’etica con Lévinas: «Noi chiamiamo volto il modo in cui si presenta l’Altro […]. Il volto […] introduce una nozione di verità».

Ivano Dionigi, Segui il tuo demone, Laterza

Cormac McCarthy, Tiro al piccione (frammento)

Mi ricordo che molti anni fa c’era un tizio che sfidava chiunque al tiro al piccione. Lui con un fucile a un colpo, tu con un fucile da caccia caricato a pallettoni. O qualsiasi altra arma volessi. Doveva averne una camionata, di piccioni. Un ragazzo che era con lui stava in mezzo a un campo con una cesta piena di piccioni, lui gridava e il ragazzo ne lasciava uscire uno, lui alzava il fucile e bang, lo faceva secco. Diavolo, era letteralmente capace di fargli volar via le penne. Non avevamo mai visto nessuno sparare così. C’erano un sacco di buoni cacciatori di uccelli, fra noi, e persero tutti parecchi soldi sfidandolo prima di capire il trucco. Ecco come faceva, il ragazzo, infilava nel culo dei piccioni un piccolo petardo. Loro prendevano il volo come se fossero finalmente liberi, salivano su, su, e bang, gli scoppiava il culo. Lui non faceva altro che sparare appena vedeva le penne volare via. Era impossibile accorgersene. Anzi, mi correggo, qualcuno alla fine se ne accorse, sì. Non mi ricordo chi fu. Allungò un braccio e strappò il fucile dalle mani di quel tizio prima che potesse sparare, ed ecco che quel dannato piccione salta in aria ugualmente. Lo coprirono di pece e di piume, qualcosa del genere, per quell’imbroglio.

Cormac McCarthy, Figlio di Dio, Super ET, Traduzione Raul Montanari

Valerio Miselli, Fine della sanità pubblica (Doppiozero)

Il Servizio Sanitario Nazionale potrà continuare a garantire cure gratuite a tutti? Il nostro sistema universalistico, basato sull’articolo 32 della Costituzione («La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti»), regge ancora e potrà essere sostenibile nel prossimo futuro? Sotto finanziato, minato dalla crisi degli organici medici e infermieristici, alle prese con mille difficoltà malgrado la prova straordinaria che ha dato durante le fasi più acute della pandemia, il SSN è a rischio implosione. Aumentano le liste di attesa, anche per interventi importanti, i Pronto Soccorso esplodono, il territorio non risponde mentre i medici di famiglia sono sempre meno, così il ricorso al privato diventa una via spesso obbligata.

Leggi l’intero articolo: https://www.doppiozero.com/fine-della-sanita-pubblica

Martin Amis, Lo zoccolo duro dei lettori dell’Ulisse

Da chi è composto, al giorno d’oggi, lo zoccolo duro dei lettori dell’Ulisse? Chi lo legge? Chi si accoccola con l’Ulisse tra le mani? Questo libro viene studiato da cima a fondo, viene aperto e scucito da tutte le parti, è stato ampiamente decostruito. Ma chi legge l’Ulisse per puro piacere? Conosco un poeta che lo porta sempre con sé nella valigetta. Conosco un romanziere che la sera, prima di coricarsi, lo consulta brevemente. Conosco un saggista che lo ostenta spiritosamente sulla mensola del bagno. Queste persone l’hanno letto – ma l’hanno letto come si legge un libro, dall’inizio alla fine? Perché la verità è che l’Ulisse non va incontro al lettore. Tutti sanno che James Joyce è uno scrittore per scrittori. E forse non si esagera dicendo che James Joyce è in realtà uno scrittore per uno scrittore solo. Va incontro solo a se stesso; James Joyce va incontro solo a James Joyce. È anche un genio. E lo si può dire con una certa sicurezza: al suo confronto Beckett appare prosaico, Lawrence laconico, Nabokov ingenuo. Nell’intero corpus della sua opera si vede Joyce che si lava diligentemente le mani del semplice talento: gli accessibilissimi racconti di Gente di Dublino, il piú o meno comprensibile Ritratto dell’artista da giovane, poi l’Ulisse, prima che Joyce si prepari per quell’immolazione di ostilità, di sterminio del lettore che è Finnegans Wake, dove ogni parola è un pun multilingue. Genio esemplare, Joyce è anche un Moderno esemplare, prolisso fino al fanatismo, innovativo e astruso, e libero dall’obbligo di accontentare il lettore (al posto dei contributi governativi o della protezione delle università, Joyce aveva il mecenatismo). Senza redini, senza catene, si è involato per portare a compimento il destino del suo genio; o, se preferite, ha scritto perché gli piaceva, punto e basta. È una cosa che tutti gli scrittori fanno, o aspirano a fare, o farebbero se ne avessero il coraggio. Joyce è l’unico che l’ha fatto con tanta dissennata maestria. È un dettaglio al contempo divertente e appropriato il fatto che all’inizio l’Ulisse dovesse figurare come un racconto in Gente di Dublino. E in un certo senso, l’Ulisse alla fine non è altro che un racconto di trecentomila e passa parole nel quale Joyce ha messo tutto quello che sapeva. La folle inclusività del romanzo viene presentata come un ironico sacramento, una versione umana della conoscenza divina: Joyce è davvero il Narratore Onnisciente. Ma si può comunque immaginare la piega che il racconto avrebbe preso se fosse stato narrato con la decorosa evasività dei primi lavori. Un garbato signore ebreo sulla quarantina passeggia per le strade di Dublino tormentato dalla gelosia per l’infedeltà sessuale che sua moglie si prepara a consumare; un ventenne cattolico, un giovane imprudente, prende un percorso parallelo, tormentato da un senso di colpa retrospettivo nei confronti della madre morta; i due si incontrano, scambiano qualche parola, si salutano. Fine. Nella quiete e nell’austerità di questa storia, nelle sue costrizioni di tempo e luogo, Joyce ha visto – o è riuscito a evocare – la struttura dell’epica: un’epica degradata, un’epica moderna. C’è un unico evento nell’Ulisse: l’incontro tra Bloom e Stephen. (È un anticlimax di cento pagine; ma in fondo stiamo parlando di un antiromanzo). Tutto il resto è «Vita. Vita», per dirla con Bloom. «Ogni vita è fatta di molti giorni, giorno dopo giorno», come dice Stephen: «Noi camminiamo attraverso noi stessi, incontrando ladroni, spettri, giganti, vecchi, giovani, mogli, vedove, fratelli in amore. Ma incontriamo sempre noi stessi».

Amis, Martin, La guerra contro i cliché, Einaudi, traduzione Federica Aceto

Le figurine di Radiospazio. La morte della nonna

A. – Come sta? B. – Non troppo bene. È appena morta mia nonna. A. – Anche la mia è morta. Molto tempo fa. Era una donna molto dolce… (Segue un lungo racconto dettagliato. Poi i due uomini si separano. Più tardi, B. incontra C.) C. – Allora, ci sono novità? B. – Non belle, stamattina è morta mia nonna. C. – La mia sarà morta circa dieci anni fa, il cuore, credo… Le volevo molto bene. Lei… (Segue un lungo racconto dettagliato. Poi i due uomini si separano. Più tardi, B. incontra D.: stessa storia, poi incontra E, F, G… ogni volta la stessa storia. Alla fine, B. incontra X.) X. – Come va? B. – Come va. Ho saputo di tua nonna, povero amico mio. So quel che vuol dire. È morta anche la mia, non più tardi di un’ora fa, emorragia cerebrale… (Segue un lungo e dettagliato racconto.)

Éric Chevillard, L’Œuvre posthume de Thomas Pilaster, Les éditions de Minuit

John Callahan, il poeta del cattivo gusto (Internazionale)

“Cerco di non soffermarmi sulla paralisi”, mi ha detto John Callahan una volta. “A meno che non voglio mangiare cinese e la persona che sta con me non vuole andarlo a comprare perché piove. Allora porto abilmente la conversazione sul fatto che sono tetraplegico. Ci sono dei lati positivi nell’essere su una sedia a rotelle. Puoi piantarti una forchetta nella gamba e non sentire niente. E se vuoi fare il vignettista, hai il vantaggio di essere già seduto”. Callahan è stato un grande umorista, ma la sua opera non è per tutti.

“Se qualcuno ride dicendo: ‘Non è divertente’, sai che sta leggendo John Callahan”, ha scritto P.J. O’Rourke. Nel 1992, quando ci siamo conosciuti, aveva appena rinunciato all’assistenza pubblica. Siamo rimasti in contatto per i successivi diciotto anni, durante i quali ha pubblicato le sue vignette in più di cinquanta giornali, tra cui il New Yorker e l’Independent (e in Italia Internazionale). Si è comprato una bella casa in una ricca zona della città e ha avuto un’assistente ventiquattr’ore su ventiquattro. Callahan teneva una bacheca in cucina, dove appendeva le lettere di protesta che riceveva dai lettori.
Uno s’infuriò per un disegno di Stanlio e Ollio ricoverati in un reparto per sieropositivi con la didascalia: “Ecco un altro bel pasticcio in cui mi hai cacciato”. Un altro lettore ebbe da ridire su una vignetta con due del Ku Klux Klan che indossano le tipiche lenzuola e uno dice: “Non ti piace quando sono ancora calde dell’asciugabiancheria?”. Ma Callahan non era sempre così provocatorio. Qualche anno fa mi ha mandato un disegno con due cani che bevono acqua in bottiglia. “Sai”, dice uno, “probabilmente questa roba non viene nemmeno da un cesso. Forse arriva da un fresco torrente di montagna, o qualcosa del genere”.

Leggi l’intero articolo: https://wordpress.com/post/radiospazioteatro.wordpress.com/23765

Gesualdo Bufalino, Di pensieri e umori sbagliati

“Perché si scrive, mi chiedo. Perché ci si affanna a tessere sogni e raggiri, si dà corpo a fantocci e fantasmi, si fabbricano babilonie di carta, s’inventano esistenze vicarie, universi paralleli e bugiardi, mentre fuori così plausibile piove la luce della luna nell’erba, e i nostri moti naturali, le più immediate insurrezioni dei nostri sensi c’invitano al gioco affettuosamente, divinamente semplice della vita?”

Leggi l’intero articolo https://formicaleone.wordpress.com/2020/08/06/di-pensieri-e-umori-spaiati-gesualdo-bufalino-dialoga-con-alessandro-chiappanuvoli/

Le scimmie di mare, 17ª puntata

Nel cinema non c’è una grammatica.
Yasujirō Ozu, Scritti sul cinema

Andavo ogni giorno al Museo in ore sempre diverse, come per coglierlo di sorpresa. Il cartello sul portone permaneva, insensato: chiuso per restauri interiori.
Poi smisi di bussare. Mi limitavo a fare qualche giro intorno all’edificio guardandolo con disprezzo.
Fu durante una di queste ispezioni inutili che notai sul retro una minuscola finestrella del tutto anomala e asimmetrica. Sembrava costruita apposta perché qualcuno vi mettesse l’occhio. Mi accostai come al mirino di una cinepresa.
L’inquadratura mostra solo parzialmente un vano che dev’essere molto ampio.
Scarsa illuminazione da una fonte imprecisata.
Due anziane poltrone con l’aria spaesata.
Casse di bottiglie gettate sul pavimento alla meno peggio da un magazziniere canaglia.
Fioriscono le piccole imprese dei ragnetti lavoratori.
Il set è suggestivo, fra un deposito di contrabbandieri e il soggiorno di un Robinson Crusoe poco più abbiente dell’originale.
Cinque minuti. Nessuno entra nell’inquadratura.
Mi innervosisco come quegli spettatori che se la prendono con la moglie: «Ma non succede niente in questo cazzo di film!», neanche lo avesse prodotto lei.
Finalmente qualcosa accade, ma fuori campo.
Effetti sonori.
Ruggiti (del custode invisibile).
Legni si schiantano, tramezzi crollano, vetri si infrangono. Risate di trionfo.
Fumi e bagliori di piccoli incendi. Il vecchio (che continua a rimanere fuori campo) dev’essere un piromane esperto, non vuole incendiare l’intero edificio ma solo eliminare il superfluo. Con la mazza e col fuoco.
La finestrella esercitava su di me un’attrazione simile alla dipendenza. Andavo a dare una sbirciata tutti i giorni, con l’ottusità di quei registi senza idee che girano chilometri di pellicola così come viene, sperando che durante il montaggio tutto acquisti un senso, non si sa perché.
A volte, il vecchio custode entrava nell’inquadratura con la mazza ancora calda di massacro, si lasciava cadere su una delle poltrone sbilenche e si attaccava alla prima bottiglia che trovava. Tirava lunghe sorsate tenendo gli occhi chiusi, li riapriva, constatava che tutto era uguale a prima e si rimetteva giù a poppare.
Dopo le pause alcoliche più lunghe, si gettava su una brandina e dormiva – impossibile prevedere quanto, dipendeva dai bicchieri e dai sogni; quando ne trovava uno che gli piaceva non lo lasciava più, lo spremeva fino all’ultimo. Allora si svegliava nel malumore e nel rimpianto.
Fra i suoi sogni preferiti c’era quello dei gatti, che ambientava in appartamenti di un cattivo gusto orientale e sempre molto costoso. Gatti maschi tigrati e gatte femmine bianche.
Dio, come lo desideravano quelle gattine, nessuno lo aveva mai amato così! I maschi tigrati gli sfilavano davanti con un inchino, gli si strusciavano sulle scarpe in segno di sottomissione; le femmine bianche perdevano la testa per la sua gamba di legno, l’abbrancavano e miagolavano di piacere mentre la unghiavano per ricavarne lunghi fili che cadevano sul pavimento formando delle ricciolute collinette di Venere; e il piacere delle gatte si irradiava in tutto il corpo di lui come se quell’arto non fosse più un povero pezzo di legno ma un conduttore amoroso che lo congiungeva a corpi femminili furibondi e ansiosi di possederlo. Quando il sogno svaniva, gli occhi del custode incontravano il muso del suo vecchio gatto tarlato che aveva assistito al baccanale nel silenzio di chi ha già visto tutto. Quella fissità mandava in bestia il vecchio che sturava la bottiglia delle recriminazioni: quando mai lui (il gatto) si era strofinato contro la sua gamba? In tutti quegli anni era stato solo capace di chiedere, chiedere e basta, con quegli occhi di vetro, chiuso in quel suo mutismo così femminile – (insensato, visto che era un esemplare maschio); non aveva nessun diritto di essere geloso di quelle gattine così giovani ma già capaci di apprezzare il fascino di un uomo maturo.
Da anni, il gatto aveva deciso di non lasciarsi trascinare nelle discussioni di coppia; gli avevano causato un’alopecia nervosa che lo faceva assomigliare a un péluche dimenticato in soffitta, oltre ad avergli rovinato l’appetito. E adesso quel suo padrone decerebrato credeva di rimediare mostrando la scatola delle crocchette Bozita e facendo la voce felina: “Non parliamone più. Guarda cosa ti ho preso…”.
Tampinava il gatto per tutta la casa come un marito con la coda fra le gambe. Al gatto, già la sola vista delle Bozita gli faceva saltare i nervi; il custode non le comprava mica per le vitamine e i sali minerali ma solo per la suggestione del nome. Nella giungla marcita del suo cervello, Bozita doveva evocare una qualche danzatrice brasiliana, forse fantasma di gioventù. Il vecchio fuori controllo ne imitava le movenze, ancheggiava perfino, e scuoteva la scatola come una maraca solitaria mentre improvvisava una canzoncina demente, sul genere di: “Quant’è bbona la Bozita!”.
Il gatto s’incupiva e più ancora si preoccupava; certe cose sono brutte da pensare ma bisogna tenere i piedi per terra: aveva appena compiuto dieci anni, che per un gatto sono la soglia della terza età; quella del padrone non la sapeva esattamente. Difficile indovinare chi sarebbe morto prima. Se fosse toccato al vecchio scimunito, la qualità della vita sarebbe migliorata senza tutte quelle petulanze e quelle arroganze, quelle violenze e quelle escandescenze. Rimaneva però l’incognita del sostentamento; in paese non tirava buona aria per i randagi. Viceversa, sarebbe potuto morire lui prima del padrone, allora l’avrebbero gettato nella discarica appena fuori dall’abitato come un vecchio televisore. Meglio così, si diceva nei momenti più bui, almeno sarebbe finita quella routine degradante. Tanto più (si consolava) che gli animali non temono la morte – lo aveva sentito dire tante volte sia dagli uomini che dagli altri gatti e si sforzava di crederci a tutti i costi. Non la temono, percepiscono solo il suo passo leggero all’ultimo momento, quando si avvicina, e si limitano a dire: “Ah, eccola.”
Ma questa faccenda non lo convinceva, gli sembrava così incredibile starsene tranquilli in poltrona mentre la morte entrava nella stanza. Cosa ne potevano sapere quei suoi amici gatti, ben vivi e pasciuti, che filosofeggiavano durante il pasto, tra un rognone e una mousse di anatra? Per approfondire, aveva consultato svariati manuali, ma erano tutte stupide pubblicazioni destinate alle vecchie svanite che cercano solamente lettiere e tronchetti per le unghie.
Oppresso dai pensieri, esasperato dalla reincarnazione della ballerina brasiliana, il gatto infilava di corsa il suo sportello ritagliato nel portone per prendere una boccata d’aria, ma il padrone lo perseguitava anche lì con le sue smancerie.
A volte, capitavo sul piazzale del museo durante queste sceneggiate domestiche e affrettavo il passo per entrare, ma in quattro salti il gatto infilava il suo sportellino inseguito dal padrone che riusciva sempre a sbattermi il portone in faccia.
I miei tentativi di entrare al museo erano diventati inutili; il vecchio aveva fatto piazza pulita di tutti i reperti di tutte le stagioni teatrali, comprese le mie. Ogni tanto compariva alla guida di un furgoncino carico di barattoli di vernice. Guidava euforico, derapava, zigzagava, il finestrino abbassato, la radio accesa al massimo. Con in testa un cappelluccio di carta di giornale come i manovali di una volta, giocava all’allegro imbianchino. Appena mi vedeva, incominciava a cantare forte. Voleva provocare. Dovevo immaginarlo che era stupido, fin dal primo incontro, quando mi aveva estorto tutte quelle banconote per farmi entrare. Avido come uno stupido. Credeva di farmi rabbia, non capiva che mi aveva sollevato da un compito penoso.
Tutto andato. Tutto perduto. Pazienza. Tutto sepolto sotto quattro mani di bianco. Cosa ne potevo io? Avevo fatto il possibile. Una fatalità. Mi sentivo leggero.
Gli stupidi sono lo strumento dell’imperscrutabile che decide i fatti nostri, possono anche produrre effetti positivi.
Lo studiavo mentre portava nel museo sempre nuovi carichi di colore. Saliva e scendeva dal furgone con un’agilità sospetta. Volteggiava sul pianale, si caricava quattro o cinque latte di vernice, saltava e atterrava a piedi pari come i ginnasti.
Il lettore ne è testimone: fino a qualche pagina fa, il custode aveva una gamba di legno, adesso non ce n’era più traccia. Sparita dalla sera alla mattina. Forse l’aveva sostituita con una protesi di ultima generazione che imitava perfettamente i muscoli e la carne.
Oppure la gamba di legno era stata un trucco ben riuscito.
I misteri del custode non si limitavano alla gamba; tutta la sua persona era in preda a una metamorfosi progressiva e inspiegabile. Le rughe del viso si spianavano in tempo reale come negli spot delle creme anti-età; ogni mattina il suo corpo appariva più sodo, più snello.
Era diventato anche più alto.
Quando il vecchio rottame ebbe risalito il corso degli anni fino alla soglia della trentina, la sua rigenerazione fu compiuta.
Me ne accorsi una mattina, verso mezzogiorno, quando scese da una Mazda decappottabile bluette intonata al suo vestito carta da zucchero; mi attraversò con lo sguardo, si diresse al portone del Museo, che era stato sostituito da una vetrata a rettangoli colorati (triste imitazione di Mondrian) e lo aprì strisciando una tessera magnetica.
In pochi minuti la Mazda decappottabile si riempì di ragazze a fiori.
Masticavano gomma, erano impazienti. Aspettavano lui, il filibustiere ristrutturato.
Una magra magra con in cima un cappello di paglia da turista, si allungò tutta e cacciò uno strillo:
– Sbrigati Bob!…
L’ex vecchio si faceva chiamare Bob, senza pudore.
Incontrandolo nella sua versione precedente, la magra magra gli avrebbe allungato una monetina e subito si sarebbe disinfettata le mani. Ma alle ragazze della Mazda non interessa il prima, hanno solo voglia che lui le porti via, non importa dove. Andare. Adesso. Subito. Molta voglia, e fanno suonare il clacson perché si sbrighi.
Uno zefiro leggero prende a soffiare sulle gonne. Le ragazze a fiori stormiscono, si sentono belle, fresche, e soprattutto nuove come tanti germogli
Loro non lo sanno, ma sono le spore di una Primavera- madre che riempie tutto il cielo che fa esplodere il piazzale abbandonato alla polvere in un festival di verzure e di uccellini colorati
che guarisce le piaghe dei cani randagi invasi dalle larve e li restituisce al vivere civile in forma di quadrupedi brizzolati, ben portanti, sulla cinquantina, più che dignitosi
che raddrizza le catapecchie sbilenche e le riscatta dall’anonimato pitturandole come donnine allegre degli anni Venti
che impasta gli abitanti con un’argilla nuova e rigenerante.

La Mazda bluette del sedicente Bob (che d’ora in poi verrà indicato come Bob) mi sorpassò con una mitragliata di clacson e scomparve insieme al suo carico di ragazze mentre mi trovavo davanti alla vetrina di un Armani Store.
La Primavera fecondatrice lo aveva fatto nascere quella notte insieme a tanti altri fratellini e sorelline.
Versace Store,
Cavalli Store,
Krizia Store,
Coveri Store,
Prada Store.
Tutta la via era una nursery di Store appena nati che si affacciavano alla vita sgambettando in una nuvola di borotalco.
Nell’open space dell’Armani Store trottavano commesse con i capelli tirati all’indietro e le code di cavallo. Dovevano essere sorelle perché papà Armani le aveva truccate e vestite tutte uguali.
Ho sempre saputo che non si devono sbirciare le commesse, anzitutto perché sono lavoratrici che faticano, e poi per ragioni di stile. Lo sapevo ma quella volta l’ho fatto. E sono stato punito. Infatti, mentre le guardavo, così solamente per guardare, mi sono visto riflesso nella vetrina. Unico in tutto il paese, la Primavera non mi aveva rigenerato per niente, al contrario mi aveva scaricato addosso un numero esagerato di anni.
Adesso erano le commesse nel negozio che guardavano me, così poco nuovo da risultare indecente.
Armana, la direttrice, era inquieta; la mia presenza davanti allo Store poteva deprezzare l’intera via. Ma la ragazza aveva fatto i corsi professionali e applicò la strategia della buona Samaritana.
– Si sente bene?
– Insomma. Dopo questa scarica di anni, è già tanto se sono ancora in piedi.
– Bene, è una buona notizia. Abita in paese?
– Diciamo di sì. Provvisoriamente.
– Bene. Il Provvisorio aiuta a restare giovani! Anche noi ragazze siamo qui solo di passaggio. Come uccellini sul ramo. (Ride. Ha denti belli). Appena avremo avviato questa nuova, meravigliosa avventura ci trasferiranno non si sa dove. Sono cinquant’anni che traslochiamo così da uno Store all’altro e non siamo per niente stanche. Non trova che sarebbe ora di tornare a casa?
Un ronzio segnalò che si stava aprendo la bocca di un garage. Ne uscì un minuscolo veicolo Armani guidato da un autista in scala uno a dieci.
– Dovrà adattarsi, i pulmini di taglia media li hanno spediti, ma arriveranno solo fra qualche giorno.
Intanto, le altre ragazze Armani erano uscite e aiutavano la direttrice a stipare il mio corpo nell’abitacolo; senza quelle manine specializzate in imballaggi sarebbe stato impossibile. Quando finalmente l’omino avviò il motore, riuscii a rigirarmi e sbirciai dal lunotto posteriore. Le commesse mi facevano ciao e tiravano sospiri di sollievo.
Nonostante il trabiccolo fosse firmato Armani, l’arrivo alla pensione non accrebbe il mio prestigio. Anzi. Come seppi in seguito, tutti gli Store ne tenevano una piccola flotta destinata ad accompagnare (a casa, se ne avevano una, oppure alla discarica) gli spaesati come me che non rientravano nel piano di rigenerazione del Nuovo.
Intorno al fabbricato originario era spuntata una piccola selva di altri parallelepipedi che ostentavano l’avanguardia dei loro materiali, resina, carbonio, e persino Fiber Reinforced Plastics, che nel mondo era ancora in fase di sperimentazione.
Sulle facciate dei nuovi edifici le finestre si aprivano generose.
La filosofia degli architetti filantropi era improntata all’inclusione, che consideravano un dovere morale, un risarcimento sociale. I passanti, derelitti per definizione, si sarebbero svagati gratuitamente guardando i personaggi più o meno famosi che transitavano da una finestra all’altra. Un sapiente gioco di luce e di buio li faceva apparire come incarnazioni di un immaginario sottratto alle leggi del tempo.
Antiche popstar planetarie, notoriamente defunte da decenni, si sballavano insieme ai rapper foruncolosi delle radio private.
Sottosegretari di pochi capelli, comparsi in qualche talk televisivo, prendevano sottobraccio un De Gaulle e un Arafat come vecchi compagni di scuola.
Le finestre sotto le quali si assembrava il pubblico erano quelle che lasciavano intravedere famosi personaggi femminili assortiti in una sorellanza molto libera.
Una Sharon Stone trentenne sparava raffiche di champagne su giornaliste contegnose, strafatte per l’occasione.
Tagli di luce balenavano su una femmina sacra che aveva spopolato a Hollywood in un tempo lontano.
– E quella chi sarebbe?
– Boh.
– Cosa si è messa sulla testa? – Sembra un serpente.
– Che schifo!
– Senza contare il pericolo!
– Ma non vedete che è morto?
– Peggio! Un serpente imbalsamato.
– Pensa la puzza!
– Per non dire l’igiene!
– Dev’essere malata.
– Con quella faccia da sepolcro, non è certo il ritratto della salute!
– Ahahahahah!
– E tutto quel nero intorno agli occhi? – Avrà consumato un chilo di carbone. – Ahahahahah!
– Che stronza!
– Perché?
– Dicevo così per dire.
– Attenzione, è arrivata la Ilary.
– Finalmente un po’ di gioventù!
– Insomma… anche lei ha i suoi anni.
– Sì, ma vuoi mettere con la serpentona?
– La serpentona non è mica tanto vecchia, è solo un po’… – … Defunta.
– Ahahahahah!
– Guarda te come se la intendono!
– Forse Ilary la vuole scritturare per il suo nuovo show,“La morte in vacanza”. – Ahahahahah!
La serpentona era Theda Bara, la più famosa vampira di Hollywood, scomparsa oltre sessant’anni prima, che adesso faceva casino, oltre che con la Ilary in fiore, con le Antonelle, le Alessie, le Barbare, le Michelle televisive, tutte vive e vitali nel sogno del presente.
Conoscevo bene la commistione dei vivi con i morti, in teatro è cosa di tutti i giorni; mi chiedevo dove stesse il trucco. Come ogni virus, il Nuovo ne conosce di ogni genere, dai più sofisticati a quelli così banali che quando li scopri ti senti un idiota.
Il trucco me lo rivelò la stessa Signora della pensione, che nel frattempo era stata ribattezzata Holiday Inn.
– Ha visto, ieri, che serata? Un po’ costosa, ma per la première bisognava fare le cose come si deve. Io francamente ero a corto di idee, l’illuminazione è venuta a Bob. Bob è pieno di risorse. Oltre che di contatti.
(Ride. Bob è il suo amante. Sicuro. Lei gli lascia la briglia lenta perché coltivi le sue relazioni perverse. Complici e amanti. Niente di strano. I corpi dei due ristrutturati erano ritornati giovani ed elastici – logico che ora vibrassero. Ma forse la tresca risaliva a molto prima, quando erano ancora la Vedova il Vecchio Filibustiere. Forse lui si smontava la gamba di legno prima di immergersi nel corpo molle di lei sciolto fra le lenzuola).
L’illuminazione di Bob era stata rivolgersi un’agenzia di sosia. La Signora ci teneva a mostrarmi il catalogo patinato.
– Vede? Tutti Top Selection. Da Jennifer Aniston a Catherine Zeta Jones. Alcuni sembrano dei veri e propri cloni e sono piuttosto cari, ma Bob ha detto che per una serata di promozione popolare andavano bene anche le seconde scelte.
Ci sono degli sventurati privi di tutto che fingono di essere Elton John. È la loro ultima risorsa, hanno perso il lavoro, e la madre si è portata nella fossa la pensione. La mattina, davanti allo specchio, mentre si ritocca la frangetta bionda, Elton non si chiede “Chi sono io?” (è una domanda da reddito medio-alto), ma: “Posso sembrare ancora a lui?”
Si pesa. Cristo! impreca, e cade in ginocchio ai piedi della bilancia. Due chili in un mese nonostante abbia mangiato solo pasta e tonno in scatola.
Più un chilo che aveva preso il mese scorso.
Tre in sessanta giorni.
Quelli dell’agenzia erano stati chiari:
– Mi dispiace, Elton, ma se continui così dobbiamo metterti fra i sosia amatoriali, lo sai come funziona qui.
Lo sa bene, e sa cosa significa: cachet dimezzati, ingaggi pochi, giusto alle convention di ultimo livello con i concessionari più incazzati:
– Quello lì ci ha soltanto le chiappe di Elton John. Verificare per credere!”
– Ahahahahah!
Poi l’estromissione dal catalogo e la fine.
Proverà ad abolire la pasta, ma riuscirà a vivere di solo tonno?

La storia dei sosia è antica come il teatro, ma il Nuovo se ne fotte della Storia. L’importante è riciclare. Una verniciata a spruzzo, un packaging sottovuoto, e i sosia sono pronti, freschi di giornata.
Tutto odorava di Nuovo. Il grande embrione di cemento accanto all’Holiday Inn era stato terminato nella notte e si presentava come una smisurata arena vuota ma già risonante di un pubblico invisibile.
Gli abitanti del Paese (dove si erano nascosti per tutto questo tempo?) stazionavano con i vestiti della domenica davanti alla porta di casa, gli occhi fissi sull’unica strada asfaltata.
Poiché dal curvone continuava a non spuntare nulla, gli abitanti capirono che dovevano aver fiducia e credere, credere fortemente. Si scatenò una caccia affannosa alla fede. Alcuni se ne fecero una posticcia, alla buona, altri ricorsero al baratto e alle minacce. Solo i vecchi se ne stavano seduti tranquilli e li guardavano come tanti scemi; era da mo’ che loro non si aspettavano più niente.

(Continua)

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3ª puntata https://wordpress.com/post/radiospazioteatro.wordpress.com/23125
4ª puntata https://wordpress.com/post/radiospazioteatro.wordpress.com/23138
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Romain Gary, Il bambino prodigio

Fin da quando nacqui, mia madre nutrì la speranza che sarei diventato un bambino prodigio, un incrocio fra Yacha Heifetz e Yehudi Menuhin che all’epoca erano al culmine della fama. Avevo solo sette anni, quando fu comprato un violino d’occasione un negozio di Wilno, nella Polonia Orientale, dove eravamo di passaggio, e fui condotto solennemente a casa di un uomo spento, vestito di nero e dalla lunga chioma, che mia madre con un mormorio rispettoso chiamava « maestro ». In seguito, vi tornai da solo, coraggiosamente, due volte la settimana, col violino racchiuso in una custodia color ocra tappezzata di velluto viola. Del « maestro » non ho conservato che il ricordo di un uomo profondamente stupito ogni volta che impugnavo l’archetto; il grido « Ahi! Ahi! Ahi!», che cacciava ogni volta portandosi le mani alle orecchie è ancora vivo nella mia memoria. Credo che il « maestro » soffrisse enormemente per la mancanza di armonia universale in questo squallido mondo, una mancanza nella quale io dovetti giocare, durante le tre settimane che andai a lezione, un ruolo importante. Dopo la terza settimana, il « maestro » mi strappò l’archetto e il violino dalle mani, disse che avrebbe parlato con mia madre e mi mandò via. Non ho mai saputo ciò che si dissero i due, ma mia madre passò molti giorni a sospirare e a guardarmi con aria di rimprovero. Di tanto in tanto mi abbracciava in uno slancio di pietà. Un grande sogno si era infranto.

Romain Gary, La promessa dell’alba

Pier Paolo Pasolini, La napoletanità

Io so questo: che i napoletani oggi sono una grande tribù che anziché vivere nel deserto o nella savana, come i Tuareg o i Beja, vive nel ventre di una grande città di mare.
Questa tribù ha deciso – in quanto tale, senza rispondere delle proprie possibili mutazioni coatte – di estinguersi, rifiutando il nuovo potere, ossia quella che chiamiamo la storia o altrimenti la modernità. La stessa cosa fanno nel deserto i Tuareg o nella savana i Beja (o fanno anche, da secoli, gli zingari): è un rifiuto, sorto dal cuore della collettività (si sa anche di suicidi collettivi di mandrie di animali); una negazione fatale contro cui non c’è niente da fare. Essa dà una profonda malinconia, come tutte le tragedie che si compiono lentamente; ma anche una profonda consolazione, perchè questo rifiuto, questa negazione alla storia, è giusto, è sacrosanto.
La vecchia tribù dei napoletani, nei suoi vichi, nelle sue piazzette nere o rosa, continua come se nulla fosse successo a fare i suoi gesti, a lanciare le sue esclamazioni, a dare nelle sue escandescenze, a compiere le proprie guappesche prepotenze, a servire, a comandare, a lamentarsi, a ridere, a gridare, a sfottere; nel frattempo, e per trasferimenti imposti in altri quartieri (per esempio il quartiere Traiano) e per il diffondersi di un certo irrisorio benessere (era fatale!), tale tribù sta diventando altra. Finché i veri napoletani ci saranno, ci saranno; quando non ci saranno più, saranno altri (non saranno dei napoletani trasformati).
I napoletani hanno deciso di estinguersi, restando fino all’ultimo napoletani, cioè irripetibili, irriducibili e incorruttibili.

(Queste righe meravigliose e commoventi furono dettate dal grande friulano ad Antonio Ghirelli. Durante le riprese del Decameron, effettuate proprio a Napoli, Pasolini aveva potuto osservare da vicino il popolo napoletano e ne rimase folgorato, per la tenacia unica al mondo con cui respinge gli insulti della cosiddetta modernità. Scrive Ghirelli: «Gli sottoposi le mie domande e dettò questa pagina stupefacente». Il testo fu pubblicato dal giornalista napoletano in La napoletanità, edito da Società editrice napoletana, nel 1976)

Giorgio Manganelli, Un signore privo di fantasia e amante della buona tavola incontrò per la prima volta se stesso

Un signore privo di fantasia e amante della buona tavola incontrò per la prima volta se stesso ad una fermata d’autobus. Si riconobbe immediatamente, e ne provò solo un blando stupore; sapeva che, sebbene rari, avvenimenti del genere erano possibili, anzi non infrequenti. Ritenne opportuno non far mostra di essersi riconosciuto, dato che non erano mai stati presentati? L’incontrò la seconda volta lungo una strada, ed una terza davanti a un negozio di abbigliamento  maschile. Questa volta si fecero un breve cenno reciproco, ma non si rivolsero la parola. Ogni volta egli si era esaminato con cura: aveva trovato che il se stesso era dignitoso, elegante, ma gravato da un’aria triste, o almeno pensosa, che non gli riusciva di capire. Fu solo al quinto incontro che si salutarono con un sommesso “Buona sera”, ed anzi egli sorrise, e si accorse, o così gli parve, che l’altro non rispondesse al suo sorriso. La settima volta, all’uscita di un teatro, il caso volle che essi venissero sospinti dalla folla l’uno verso l’altro. il se stesso lo salutò garbatamente, e fece alcune osservazioni giudiziose; egli parlò  degli attori, e il se stesso acconsentì ad alcuni rilievi. A partire dall’inizio di un qualsiasi inverno, gli incontri divennero frequenti. Era chiaro che egli e se stesso abitavano in quartieri non lontani; che avessero abitudini simili, non era cosa da stupirsene. Ma sempre più egli era convinto che il se stesso avesse un’aria eccessivamente malinconica. Una sera osò rivolgergli la parola, chiedendogli se non avesse qualche cruccio cui egli non partecipava, e il se stesso gli confessò di essere innamorato, e senza speranza, di una donna che in ogni caso era indegna del suo amore; per cui, la conquistasse o meno, egli era condannato ad una penosa, intollerabile situazione. Egli fu sconvolto dalla rivelazione, giacché non era innamorato di nessuna donna; e tremò al pensiero che si fosse creata una scissione così insormontabile. Cercò di dissuadere se stesso, ma quegli rispose che né amare né disamare stava in lui. Da quel giorno, egli è caduto in una cupa malinconia. Passa con se stesso gran parte del suo tempo, e chi li incontra vede due decorosi signori parlare sommesso, ed uno che, il capo immerso in un’ombra, talora assente, talora nega.

Giorgio Manganelli, Centuria, Rizzoli

Le figurine di Radiospazio. I fili

Tutto è necessario. Ogni minimo particolare. È questa in fondo la lezione. Non si può fare a meno di nulla. Nulla può venire disprezzato. Perché, vedi, non sappiamo dove stanno i fili. I collegamenti. Il modo in cui è fatto il mondo. Non abbiamo modo di sapere quali sono le cose di cui si può fare a meno. Ciò che può venire omesso. Non abbiamo modo di sapere che cosa può stare in piedi e che cosa può cadere. E quei fili che ci sono ignoti fanno naturalmente parte anch’essi della storia e la storia non ha dimora né luogo d’essere se non nel racconto, è lí che vive e dimora e quindi non possiamo mai aver finito di raccontare. Non c’è mai fine al raccontare.

Cormac McCarthy, Oltre il confine, Einaudi, Traduzione Andrea Carosso