
Nella mappa del linguaggio quotidiano esistono delle espressioni che si combinano col kitsch così da formare un’arma capace di infliggere punture sottili che fanno sobbalzare, soprattutto se vengono somministrate all’improvviso. E’ sicuramente capitato a tutti di trovarsi con un conoscente al bar e di dire innocentemente, forse scioccamente: “Prendiamo qualcosa d’insolito… per esempio un Vov?”, e di sentirsi rispondere: “Il Vov? E’ la mia madeleine”. Ho volutamente citato una bevanda dimenticata, ma ci sono persone che hanno nel loro magazzino linguistico (non direi però in quello sentimentale, in quanto si tratta prevalentemente di soggetti anaffettivi) un numero impressionante di madeleine, e per di più distribuite su un ventaglio alimentare molto ampio, dallo spriz al budino Elah, dai fiocchi d’avena al banale panettone, dal maritozzo al Campari soda. E’ principalmente a questi consumatori abusivi (ma non solo a loro, s’intende) di madeleine che dedichiamo oggi la lettura della famosissima pagina proustiana.
Già da molti anni, di Combray tutto ciò che non era il teatro e il dramma del coricarmi non esisteva più per me, quando in una giornata d’inverno, rientrando a casa, mia madre, vedendomi infreddolito, mi propose di prendere, contrariamente alla mia abitudine, un po’ di tè. Rifiutai dapprima, e poi, non so perché, mutai d’avviso. Ella mandò a prendere uno di quei biscotti pienotti e corti chiamati Petites Madeleines, che paiono aver avuto come stampo la valva scanalata d’una conchiglia di San Giacomo. Ed ecco, macchinalmente, oppresso dalla giornata grigia e dalla previsione d’un triste domani, portai alle labbra un cucchiaino di tè, in cui avevo inzuppato un pezzetto di madeleine. Ma, nel momento stesso che quel sorso misto a briciole di biscotto toccò il mio palato, trasalii, attento a quanto avveniva in me di straordinario. Un piacere delizioso m’aveva invaso, isolato, senza nozione della sua causa. M’aveva subito reso indifferenti le vicissitudini della vita, le sue calamità inoffensive, la sua brevità illusoria, nel modo stesso in cui agisce l’amore, colmandomi d’un’essenza preziosa: o meglio quest’essenza non era in me, era me stesso. Avevo cessato di sentirmi mediocre, contingente, mortale. Donde m’era potuta venire quella gioia violenta? Sentivo ch’era legata al sapore del tè e del biscotto, ma lo sorpassava incommensurabilmente, non doveva essere della stessa natura. Donde veniva? Che significava? Dove afferrarla? Bevo un secondo sorso, in cui non trovo nulla di più che nel primo, un terzo dal quale non ricevo meno che dal secondo. È tempo ch’io mi fermi, la virtù della bevanda sembra diminuire. È chiaro che la verità che cerco non è in essa, ma in me. Depongo la tazza e mi rivolgo al mio animo. Tocca a esso trovare la verità. Ma come? Grave incertezza, ogni qualvolta l’animo nostro si sente sorpassato da se medesimo; quando lui, il ricercatore, è al tempo stesso anche il paese tenebroso dove deve cercare e dove tutto il suo bagaglio non gli servirà a nulla.
Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto, Einaudi, Traduzione Natalia Ginzburg
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