Una milanese pallida, carina, con i capelli corti, neri, ricci e cocciuti pettinati all’indietro, mi bacia. La seguo. Camera piccolissima, letto grande, coperta rossiccia gibbosa, bitorzoluta, tutta sporca di piedi eroici. —Come ti chiami? —Maria. —Di che parte d’Italia? —Sono Milanese. —Anch’io. —Vieni sarai contento. E mi abbraccia col tin tin glin glin di troppi braccialetti. Quando ritorno in sala un mio amico dice a Maria che sono Marinetti. Maria pianta il nuovo cliente viene da me, mi dà un bacio e dice: —Se avessi saputo che tu eri il celebre futurista ti avrei dato dei baci più raffinati. —Perché? —Perché ho letto tutti i tuoi libri. Ero abbonata anche a Lacerba.
Il capo della polizia che aveva veduto un poliziotto picchiare un furfante si mostrò molto indignato e avvertì il subalterno che non avrebbe mai più dovuto agire a quel modo, se non voleva rimetterci il posto. «Non siate troppo severo con me,» disse il poliziotto sorridendo; «lo picchiavo con un bastone pieno di crusca. » «Eppure, » continuò il capo della polizia, «si tratta di cosa sgradevole; anche se non gli avete fatto male.» «Ma,» disse il poliziotto, «era un furfante di stoppa. » Per esprimere la propria soddisfazione con una pacca sulla schiena, il capo della polizia allungò la mano destra con tale violenza che si ruppe la pelle dell’ascella e una quantità di segatura scese dalla ferita. Era falso anche il capo della polizia.
Qualche tempo fa mi era venuta l’immagine di facebook come di una strada a luci rosse. Ognuno sta in vetrina a esporre la sua merce. Chi mostra i glutei, chi spalanca le cosce. Tutto un susseguirsi di merci che cercano acquirenti nella scabrosa condizione in cui i produttori sono assai più dei possibili compratori. E questo i compratori lo sanno e da lì nasce la figura del compratore sadico, colui che entra nel box, gira intorno alla merce e magari se ne va lasciando semplicemente un commento sarcastico. Non c’è differenza tra chi esibisce la sua gamba monca, l’occhio in cui cigola il delirio, e quelli che fanno finta di stare qui perché vogliono cambiare il mondo, fanno finta di indignarsi, insomma fanno finta di essere scrittori. Facebook è una creatura biforcuta perché porta la scrittura, ma la porta in un clima che sembra quello televisivo. Chi scrive, chi commenta, deve ogni volta decidere da che parte stare, sapendo che da quando abbiamo smesso di credere all’invisibile e al sacro tutto il visibile e il profano non ci basta più, e ci basterà sempre meno.
Jeans falso consumati. Falso strappati. Pantaloni falso
mimetici. Borse mimetiche. Capelli falso giovani, rossastri. In giro falsi
rasta. Falsi gangsta, falsi rap. Falsi punk. Falsi giovani. Borchie falsamente
utili. Magliette falso scolorite. Falsa vita vissuta. Falsa esperienza, falso
inconscio, falso immaginario, falsa coscienza. Falsa la megalopoli, falso il
lavoro. Falso legno, ffalso antico, false le cacche di mosca su falsi mobili.
Il falso grezzo nei ristoranti falso-fichetti, o vero-fichetti per falsi
fichetti. Falsi gli hipster con false barbe folte lunghe tagliate quadre, false
camicie da falsi boscaioli, birre falso-artigianali. False calvizie, falsi
muscoli con tatuaggi falso tribali. Veloci sfrecciano falsi falsi pappagalli
verdi, frutto del riscaldamento globale, anch’esso artificiale, posticcio,.
Falsi i pesci nelle pescherie: orate di allevamento, salmoni artificiali mangia
merda, vongole non-veraci, spigole di acque chiuse, rombi di fondali
plastificati. Falci i cespugli intorno alla stazione Metro A, che esibisce una
falsa modernità ammantata di falsa tecnologia nel falso durevole, falso come il
falso bugnato dei muri modulari di contenimento dopo il sottopasso, falso il
cordoglio dei manifesti fascisti che celebrano semistrappati un militante greco
morto da quarant’anni, stupidamente, inutilmente, in una stagione di falsa
contrapposizione politica, molto violenta, sanguinosa, che produceva morti
veri, ma per falsi scopi, come i manipoli di falsi rivoluzionari che compivano
vere azioni militari. Falsi i film nei cinemi più a valle frequentati da teste
canute – Ma davero t’è piasciuto? – tardo-riflessive con in mente falsi convincimenti,
imbottiti di falsa buona coscienza, come tutti i loro simili, qui e altrove.
Falsa l’urgenza con sirene del purma daa Squadra che preme per avere strada.
Tutto il falso e il falso-vero sono più veri dell’autenticamente vivente, del
davvero risalente L’autenticità non è necessaria per la gente dello Stradone,
abituata all’andarsene delle cose e ormai aggrappata alla verità dell’unica
cosa condivisa, il linguaggio.
Da una tenda del campeggio, non lontano da casa, venne fuori la serie delle canzoni spagnole.
Questi cantanti improvvisati mi procurano un diletto inatteso e di un’incomparabile intensità. Ogni canzone mi fa rivivere con acutezza sentimentale e visiva le estati della mia adolescenza quando anch’io mi davo al campeggio e cantavo con gli amici. Davvero, questi modesti escursionisti mi hanno procurato dei momenti meravigliosi. Se fossi onnipotente, ordinerei per loro un castigo di due o cinque colpi di bastone! Perché loro non sono come ero io. Io li so stupidi, sportivi e buoni. Alla loro età, io portavo Nietzsche sotto la tenda e già rodevo il mio cervello e quello degli altri.
Lèvin era sposato da più di due mesi. Era felice,
ma in un modo completamente diverso da come lui si aspettava. Ad ogni passo
s’imbatteva in delusioni sui suoi vecchi sogni e nuovi insospettati incanti.
Lèvin era felice ma, entrato nella sua nuova vita di famiglia, ad ogni passo si
accorgeva che era qualcosa di completamente diverso da quel che lui
s’immaginava. Ad ogni istante egli provava quel che avrebbe provato un uomo
che, dopo aver ammirato il placido, tranquillo scorrere di una barchetta su un
lago, si fosse egli stesso seduto su quella barchetta. Aveva visto che, oltre a
tenersi diritto senza vacillare, bisognava tener presente, senza dimenticarsene
per un solo istante, dove ci si doveva dirigere, che sotto i piedi c’era
l’acqua e che bisognava remare, che le mani non avvezze facevano male, insomma
che guardare era facile, ma guidare davvero la barca, anche se dava gioia, era
molto difficile
Stepan Arkad’ic non sceglieva né le tendenze né
le opinioni, ma queste stesse tendenze e opinioni giungevano a lui da sole,
proprio allo stesso modo come non lui sceglieva la foggia del cappello o del
soprabito, ma adottava quella che era di moda. E per lui, che viveva nella
società più in vista, avere delle opinioni, oltre al bisogno di una certa
attività di pensiero che normalmente si sviluppa negli anni della maturità, era
così indispensabile come avere un cappello.
Quando all’adulto venne mostrato il bambino attraverso la
vetrata divisoria, non vide un neonato ma un uomo fatto (solo in fotografia
aveva il solito viso da lattante). Gli piacque subito che fosse una bambina; in
caso contrario la gioia sarebbe stata comunque la stessa. Dietro alla vetrata
gli venne messa davanti non una «figlia», o magari un «discendente», ma un
bambino. Di per sé il fatto «bambino», senz’altri attributi, emanava serenità e
si trasfuse come qualcosa di furtivo nell’adulto al di qua della vetrata,
unendo quei due, una volta per sempre, in una sorta di cospirazione. Non era
solo responsabilità quel che l’uomo sentì vedendo il bambino, ma anche voglia
di proteggere, e fierezza: la sensazione di star ben piantati per terra e di
essere diventati d’un tratto forti.
Mentre le donne gridano mettendoci al mondo, c’è sempre
qualche altra voce al di là della parete o nel vicolo o presso il letto che se
non canta dice, bisbiglia una canzonetta. Quale fu la mia? Forse sono il nipote
di canzonette napoletane candide o bizzarre, come quella in cui le donne
domandavano al venditore ambulante di spille e di sicurezza: «Quante me ne dai
per un tornese?»… Oppure di quelle canzonette narrative, drammatiche: le
canzonette-fiume che raccontano tutta una vita. Formidabili atti d’accusa
all’amicizia, all’amore, alla fortuna… Per non parlare poi del repertorio dei
“posteggiatori”… A proposito, io nel mio funerale ci voglio proprio una
musica di “posteggiatori”: mi seguano, come mi hanno preceduto, le canzonette.
Quando sarò calato lentamente nella buca, esplodano le note furiose, rampanti,
di “Funiculì funiculà”.
Un uomo è convinto di essere morto. Dice ai familiari: «Sono
morto» e i familiari lo mandano da uno specialista. Subito tra medico e
paziente incomincia un’accanita discussione. Il medico fa appello ai sentimenti
dell’uomo verso la vita, verso la famiglia. Poi prova a farlo ragionare,
dimostrandogli l’intrinseca contraddizione di una frase come »Sono morto»: i
morti non sono in grado di dire che sono morti, perché è appunto in questo che
consiste l’essere morti. Alla fine il medico ricorre all’evidenza dei sensi.
Domanda all’uomo: «I morti sanguinano?». «Certo che no» risponde l’uomo,
spazientito dall’ottusa dabbenaggine della mente del medico. «Lo sanno tutti
che i morti non sanguinano». Al che il medico gli punge un dito. Ne esce una
goccia di sangue. «Ma guarda un po’, chi l’avrebbe mai detto» esclama l’uomo.
«I morti sanguinano, eccome».
Il giudice era uno scimmione della razza dei Gorilla: un vecchio scimmione rispettabile per la sua grave età, per la sua barba bianca e specialmente per i suoi occhiali d’oro, senza vetri, che era costretto a portare continuamente, a motivo di una flussione d’occhi, che lo tormentava da parecchi anni. Pinocchio, alla presenza del giudice, raccontò per filo e per segno l’iniqua frode, di cui era stato vittima; dette il nome, il cognome e i connotati dei malandrini, e finì col chiedere giustizia. Il giudice lo ascoltò con molta benignità: prese vivissima parte al racconto: s’intenerì, si commosse: e quando il burattino non ebbe più nulla da dire, allungò la mano e suonò il campanello. A quella scampanellata comparvero subito due can mastini vestiti da giandarmi. Allora il giudice, accennando Pinocchio ai giandarmi, disse loro: – Quel povero diavolo è stato derubato di quattro monete d’oro: pigliatelo dunque e mettetelo subito in prigione.
Quando riaprii gli occhi, vidi una donna seduta vicina alla lampada. Era talmente platinata che la sua testa pareva una fruttiera d’argento. «Come si sente?» Anche la voce era dolce e bella. «Magnificamente. A parte la mascella mezzo staccata.» «Cosa s’aspettava, signor Carmady, orchidee?» «Così conosce il mio nome?» «Dormiva sodo, e hanno avuto tutto il tempo per frugarle le tasche. Hanno fatto tutto, tranne che imbalsamarla.» Potevo muovermi desso, ma non molto: avevo i polsi dietro la schiena ammanettati. «Non so, lei mi piace, signor Carmady. Anche se ha una faccia che pare una pizza.» «Pazienza. Che ora è?» «Le dieci e diciassette, ha un appuntamento? «Dove sono i ragazzi? A scavarmi la fossa?» «Non starei in pensiero per loro. Torneranno.» «Non ne dubito.» «Spero che non le facciano del male. Odio il sangue.»
Ne ho viste di cose. Stavo andando da mia madre per fermarmi da lei qualche notte, ma proprio quando sono spuntato dalla scala l’ho vista sul divano che baciava un tizio. Era estate, la porta era aperta e il televisore a colori acceso. Mia madre ha sessantacinque anni e si sente sola. S’è iscritta a un club di cuori solitari. Però, anche così, conoscendo la situazione, è stata dura. Sono rimasto lì in cima alle scale, aggrappato alla ringhiera, a guardare quel tizio che l’attirava sempre più a fondo in quel bacio. Lei rispondeva e la televisione era accesa dall’altra parte della stanza Era domenica, verso le cinque del pomeriggio. La gente degli altri appartamenti del palazzo era giù un piscina Ho ridisceso le scale e sono tornato in macchina. Da quel pomeriggio ne sono successe tante altre di cose e, in generale, si sono messe un po’ meglio . Ma in quei giorni, quando mia madre se la faceva con uomini che aveva appena incontrato, io ero disoccupato, bevevo ed ero fuori di testa. Anche i miei ragazzi erano fuori di testa, mia moglie era fuori di testa e aveva una «storia» con un ingegnere aerospaziale disoccupato che aveva conosciuto a una riunione degli Alcolisti Anonimi.