La natura e l’esperienza, dopo matura riflessione, mi insegnarono che tutte le buone cose di questo mondo sono buone per noi solamente in quanto ci sono utili; e che, per quanto ne accumuliamo per darle agli altri, noi stessi ne possiamo godere appena quel tanto che possiamo usare e non di più. L’avaro più avido e rapace del mondo, sarebbe guarito due volte del suo vizio se si fosse trovato nei miei panni, possedendo infinitamente di più di quello che avrebbe potuto usare. Non avevo ragione di desiderare nulla, tranne cose che non avevo e queste non erano che piccolezze, sebbene molto utili per me. Avevo, come ho accennato prima, un mucchietto di danaro, in oro e argento, circa trentasei lire sterline. Ahimè! quella robaccia vana ed inutile era stata buttata da una parte; non sapevo che farne; e spesso dicevo fra me che ne avrei data una manciata in cambio di una grossa di pipe o di un mulino a mano per macinare il mio grano; anzi, l’avrei data tutta per pochi centesimi di semi di rapa o di carota inglese o per un pugno di piselli e di fagioli e una bottiglia d’inchiostro. Così com’era, non me ne veniva il minimo vantaggio, né il minimo beneficio; giaceva in fondo a una cassetta e durante la stagione delle piogge l’umidità della grotta vi faceva crescere sopra la muffa; se la cassetta fosse stata piena di diamanti sarebbe stata la stessa cosa per me; non avrebbero avuto nessun valore, perché non mi sarebbero stati di nessuna utilità.
“La civiltà si fonda e nasce quando Enea in fuga dall’incendio, porta con se il vecchio padre sulle spalle e, per mano, il giovane figlio. La pietà, che è la sua qualità esistenziale e la sua qualità sociale, lo spinge nell’aiutare, includere tutti, curare tutti, anche a scapito della propria sopravvivenza, del proprio potere. Quella pietà è anche l’intelligenza della specie, in quanto la specie sopravvive, sottolineano i biologi della complessità, non nella lotta ma perché la madre continua ad allattare il figlio e perché gli uomini, anche quando vivono rintanati, non sono topi che si distruggono ma anzi si prestano soccorso.”
Tutti (o quasi) siamo tappati in casa. E i teatri resteranno off limits per un bel po’. Per chi non vuole rinunciare all’opera, alla prosa e alla musica, ecco una piccola guida all’offerta on line gratuita.
“Credo che sia un errore pensare che la letteratura sia fatta di parole. Non è fatta di parole. Cioè, è fatta anche di parole, ma è fatta soprattutto di immagini, di sogni, e di libri, e di citazioni di libri; ma i libri sono la memoria dell’umanità, sono il passato, e il passato è anche un sogno…”
Le abbiamo chiamate Interviste Frankenstein per un motivo semplice: sono composte da decine di pezzi di decine di diverse interviste, vecchie e nuove, ripescate dagli archivi dei giornali e del web, smontate e rimontate e riscritte per noi da Giuseppe Rizzo. Ogni domanda modificata, è modificata a fin di bene.
“Alberto Arbasino è uno stronzo. Oppure no. Alberto Arbasino è un genio. Oppure no. Alberto Arbasino è: il più grande stronzo geniale leggerino provinciale complesso cosmopolita narciso moralista vago vecchio chirurgico snob scrittore pop italiano. A seconda che siate un guelfo o un ghibellino (eterna divisione nazionale) potete cancellare gli aggettivi che vi piacciono meno. Li ho incontrati passando in rassegna molto del materiale pubblicato su Arbasino dalla pubblicazione del suo primo libro, Le piccole vacanze (1957), fino al suo ultimo, Pensieri selvaggi a Buenos Aires (2012).”
L’annata letteraria 1963 può anche fare impressione, adesso, retrospettivamente, paragonando la quantità e qualità dei titoli usciti allora (dalla Cognizione del dolore in giù…) con i prodotti di qualunque stagione più attuale. Ma per Anceschi e il verri c’era ancora parecchio da rifare, nelle annate seguenti. E del Gruppo 63 si sono date per decenni letture malevole e pettegole. Ma al di là degli ambiziosi ed elaborati progetti intellettuali, ecco a Palermo una piattaforma generazionale di coetanei trentenni piuttosto disparati: vasta gamma! E soprattutto, già piuttosto ben sistemati, nelle università e nell’editoria e in vari media. Però, su impulso del Professore [Luciano Anceschi, N.d.R], uniti e decisi a risollevare gli standard qualitativi della patria cultura, approfittando di quella prima congiuntura economica favorevole dopo secoli – il famoso boom – per liberare il letterato italiano tradizionalmente clientelare e bisognoso e famelico, dunque prono ai più ossequiosi compromessi davanti al Potere. E lo si era appena visto col Fascio. Basterà però qui ricordare il divario fra le tante colazioni e tavole apparecchiate nella pittura post-impressionista, e le innumerevoli varianti del popolare sketch nostrano col comico affamato di spaghetti in visita dai parenti più agiati con la marmitta fumante all’ora del pasto. D’accordo, allora: utilizzare quell’inizio di prosperità inopinata non per far carrierismi istituzionali. Nelle stanze dei bottoni culturali c’eravamo già un po’ tutti. Né eravamo ‘contestatori’ da mansuefare con l’offerta di un Posto. E nemmeno ‘sfruttatori’ per approfittare commercialmente del mercato piccolo-borghese. Piuttosto, si tendeva a svolgere una ricerca letteraria disinteressata e ‘alta’, rivisitando le avanguardie storiche secondo un pensiero ‘novissimo’, senza l’assillo o l’alibi della famigliuola pigolante per cui – «Nato con Ideali Elevatissimi» – il Poeta si riduceva a far la serva per ‘sbarcare’ quella robaccia italiana che è il lunario. E non cadere nell’altrettanto abominevole e tipico dimenticatoio.
“Non è vero che l’uomo moderno è uno spirito che ha vinto la paura. Non è vero. La paura esiste. La paura davanti al mondo esterno. La paura davanti alla morte, davanti all’ignoto. La paura davanti al nulla, davanti al vuoto. Non è vero che l’artista è un eroe o un conquistatore intrepido, come vuole una leggenda convenzionale. Credetemi, l’artista è un uomo povero, senza armi e senza difese che ha scelto il suo testo faccia a faccia con la paura, pienamente consapevole.”
Dalla allocuzione pronunciata da Tadeus Kantor a Basilea nel 1978 in occasione del conferimento del Premio Rembrandt
“Nel primo capitolo delle sue celebri memorie, «Mon dernier soupir», Luis Buñuel sosteneva che «il ricordo è costantemente contaminato dall’immaginazione e dal sogno». Nulla di più vero. Che siano il frutto di un evento corroborato da solide testimonianze o abbiano avuto luogo nei meandri della psiche, le esperienze registrate dalla memoria inglobano lo strascico del dubbio, del desiderio inappagato, dell’impulso alla rimozione (più o meno parziale, più o meno volontario). L’autobiografia è pura drammaturgia, un testo letterario dotato della più feconda autonomia. Viaggiare nella memoria è confrontarsi con un simulacro del vissuto, ri-costituire un’immagine di sé in cui far convergere il riflesso di un passato alterato dal ricordo e le tensioni esistenziali del presente, ciò che è stato e ciò che avrebbe potuto/dovuto essere, manomissioni e omissioni. Silenzi, rumori di fondo, parole smorzate. E parole gridate, dall’alto di un pulpito insidiato – spesso, non sempre – dai sussulti dell’ego, dall’identità di sé che si vorrebbe consegnare alla posterità.”
«Aprite, signor Holker» disse il notaio. «Sono impaziente di assistere alla risurrezione di quei due uomini.» Fecero il giro della piccola costruzione, finché scoprirono una porticina di ferro. Holker introdusse la chiave nella serratura ed aprì facilmente. Subito una corrente estremamente fredda investì i tre uomini, costringendoli a retrocedere rapidamente. «Vi è un banco di ghiaccio là dentro!» esclamò il sindaco. «Che cosa contiene quel vaso per produrre un simile gelo?» Attesero alcuni minuti, poi, quando la corrente fredda diminuì, uno alla volta s’introdussero nel sepolcreto. Si trovarono in una stanza circolare, colle pareti coperte da lastre di vetro. Nel mezzo vi era un letto abbastanza largo e su di esso, avvolti in grosse coperte di feltro, si scorgevano due esseri umani coricati l’uno presso l’altro. I loro volti erano gialli, gli occhi chiusi, e le loro braccia, che tenevano sotto le coperte, parevano irrigidite. Non si riscontrava su di loro alcun indizio di corruzione delle carni. Il signor Holker si accostò rapidamente a loro e sollevò le coperte. «È incredibile!» esclamò. «Come si possono essere conservati così questi due uomini, dopo cent’anni? Possibile che siano ancora vivi?» I suoi compagni si erano anche essi accostati e guardavano con una specie di terrore quei due uomini, chiedendosi ansiosamente se si trovavano dinanzi a due cadaveri o a due addormentati. Quello che si trovava a destra era un bel giovane di venticinque o trent’anni, coi capelli di color biondo rossiccio, di statura alta e slanciata; l’altro invece dimostrava cinquanta o sessant’anni, aveva i capelli brizzolati, ed era più basso di statura. Sia l’uno che l’altro erano meravigliosamente conservati: solo la pelle del viso, come abbiamo detto, aveva assunto una tinta giallastra, simile a quella delle razze mongoliche. «Sono medico», disse Holker, «So come si deve operare. Non si tratta che di far due iniezioni.»
Stamane è venuta da me la morte. Abbiamo iniziato una partita a scacchi. Col tempo che guadagnerò sistemerò una faccenda che mi sta a cuore.
E di che si tratta?
Ho passato la vita a far la guerra, ad andare a caccia, ad agitarmi, a parlare senza senno, senza ragione. Un vuoto. Lo dico senza amarezza e senza vergognarmi perché lo so che la maggior parte della vita della gente è tale. Ora voglio utilizzare il respiro che mi sarà concesso per un’azione utile…
Nel 1994 ricevetti una telefonata alle sette del mattino. “Pronto, sono Fabrizio De André…”. E io pensai subito a uno scherzo.< “Peppe Barra?… Ci possiamo dare del tu?” E io: “Sì, ma è proprio lei, Fabrizio De André?” “Sì, diamoci del tu”. E mi disse: “Peppe, io sto incidendo ‘Canti randagi’, ti chiederei di cantare Bocca di rosa e di tradurla come vuoi tu” Io rimasi colpito e fui felice di dire di sì. Feci un poco di ricerca su chi poteva tradurmi Bocca di rosa in napoletano e la mia scelta cadde su Vincenzo Salemme. E devo dire che la traduzione è una delle più belle, tant’è ce quando De André la ascoltò mi disse: “Peppe, questa la canterai tu, e solo tu”.
“Tutto è iniziato con la morte della madre, momento in cui il fotografo di Dublino Eamonn Doyle ha scoperto delle lettere in cui essa riversava il suo dolore verso la perdita di Ciarán, il fratello di Doyle, morto inaspettatamente nel 1999. Così egli scoprì che sua madre non era mai stata libera da questa tragedia e si rese conto di non aver egli stesso superato il trauma. Inoltre, successivamente alla morte della made, Dolyle fece un viaggio in cui gli successero dei fatti improbabili che, in qualche modo, collegò a questa nuova consapevolezza. Prima, nel parcheggio di un hotel, egli notò una donna vestita con un velo, che gli nascondeva il viso, che gli passò accanto silenziosamente.”
Se i pavimenti odorano di ragia se splende in ordine la sua povera casa se respira nei fiori se gli salta in collo il più chiaro bambino 5 se riposa la gota fresca di bagno contro la sua mascella dura forse m’incoronerà di uno sguardo forse scioglierà in un sorriso la sua cura. Ma chi conosce il suo pensiero 10 forse il suo desiderio si è già allontanato. Voltati e ricevi la casa dell’amore tutta ricordi di anima che quando li abbiamo portati nelle stanze vuote si sente battere il nostro cuore. Per una amara parola che ci hai lasciato stamani 15 tutt’oggi non mi sono seduta. Ma ci nega uno sguardo la sera ma anche questa giornata è perduta. Se non si dimentica, se non si consola se non si rasserena 20 se la sua carezza è mancata se non confida la sua pena allora questa casa è sbagliata allora la vecchia fede è vilipesa. Sei un uomo e forse volevi una donna di gioia 25 non una fedeltà, ma una sorpresa. O se non mi avesse sposata! almeno sarebbe durato l’amore un poco per giorno te l’avrei misurato. Ma chi conosce il suo pensiero 30 il suo desiderio si è allontanato. Mi sono aperta troppo, mi sono sfogliata son brutta e non ho più nulla da dare; nessuno mi ha insegnato a vestire e perché mi levavano i fiocchi quand’ero piccina. 35 Allora la vecchia fede mi ha ingannata Allora non gli son più vicina. Sei brutta e hai perso il suo pensiero il suo desiderio si è allontanato. Ma dicevi che è bello il viso più usato 40 dolce carezza la mano operosa: ora ti aspetta la mano ruvida ora ti aspetta il viso scavato ora, finita la donna ti aspetta la tua sposa. 45 Ritorna, te che sei stato il mio fidanzato quando camminavamo sulle cime la strada d’oro che solo insieme possiamo scoprire. Quel che ti manca in me, l’amore te lo fa mancare. Amami e sono vergine ancora 50 tanto bene nuovo ti debbo ancora dare. Ma solo cose assenti lo fanno amare cose invisibili lo fanno soffrire non per me che son sempre uguale io che sono tanto noiosa, vero 55 allora se fossi lontana allora se potessi morire ma chi conosce il suo pensiero…
“Che uomo era, dunque, Piero Jahier? che scrittore, che poeta era, dunque, Piero Jahier? Ciascuno ha il suo giudizio, oggi; io seguo, direi insegno, il mio. Sia giusto o meno, e per le generali intanto, lo avvicino e lo raffronto, per segni continui e particolari, a Rebora e a Mandel’stam. A uno, per la costante tensione, che incrudeliva e poi finiva a sovrastare, per perdersi, dico meglio: immergersi negli altri come atto inevitabile necessario urgente di conoscenza di sé e del mondo, di cui tuttavia era, il prossimo, in ogni momento protagonista inesorabile. Ricercare e avvicinarsi agli altri era come ferirsi di volta in volta per riconoscere il proprio sangue, assaporare quasi amaramente la propria vita già trascorsa, trasferirsi in una disposizione di quotidiana attesa. Era insomma una forma dura di donazione. All’altro, per questo impedimento esistenziale di trovare riposo, di rasserenare il cuore e soprattutto i pensieri; per questa continua, prolungata ambivalenza esistenziale fra la ricerca di un approdo dell’anima e la pulsione acuminata dell’esistenza quotidiana che non dava tregua: ‘Se l’anima indietreggia, indietreggia anche la poesia’”. Roberto Roversi Leggi l’intero saggio di Roversi: http://www.robertoroversi.it/saggi-critici/item/634-uno-scrittore-dipinto-da-uno-scrittore-pietro-jahier.html
“Vedo che i filosofi discutono a proposito del contagio: è vero, è falso, è virtuale, è biopolitico, serve a introdurre uno stato d’emergenza, no l’emergenza c’è già, bisogna confidare nella scienza, no la scienza è una macchinazione, etc. È probabile che il paradigma biopolitico non spieghi interamente il presente stato di cose. Il “governo dei corpi” sta lasciando il posto a un disordine reattivo della natura, che pone in primo piano l’emergenza ecologica: la situazione attuale deriva dall’incapacità crescente a governare in modo non autodistruttivo la vita biologica.” Leggi il resto dell’articolo: http://www.leparoleelecose.it/?p=37917#more-37917