Mosquitos al Teatro dei Contrari. Roma, 19 maggio

https://www.teatrodeicontrari.com/mosquitos/

L’azione si svolge negli anni Cinquanta, in una Comacchio tenebrosa e umida che stenta a uscire dal dopoguerra. Nonostante la depressione in cui giace la città, i comacchiesi sono afflitti da un problema terribilmente futile: i parabrezza delle loro automobili sono butterati, corrosi da innumerevoli cicatrici. Colpa dell’immensa nube di mosquitos che sommerge la zona? Delle esalazioni della palude, o di cos’altro? L’oziosa questione acquista consistenza quando una florida adultera muore a causa di un incidente causato da un parabrezza avariato. Altre morti tragiche e delittuose affiorano dalle paludi. Il caso Comacchio; fuoriesce dalla bizzarra cronaca locale e arriva a Roma, sulle scrivanie dei potenti; sembra infatti che i crimini nati dall’oscuro inconscio comacchiese vadano a intrecciarsi con i progetti di sviluppo metanifero della zona, che interessano sia il Governo italiano che quello americano. Fra questi due poli – il microscopico (e un po’ nevrotico) local e il misterioso global – si snoda una vicenda ricca di personaggi e di colpi di scena che, a dispetto dell’ ostentata matrice noir, percorre le vie del paradosso e del comico.

Mosquitos al Teatro dei Contrari, Roma. Domenica 19 maggio

L’azione si svolge negli anni Cinquanta, in una Comacchio tenebrosa e umida che stenta a uscire dal dopoguerra. Nonostante la depressione in cui giace la città, i comacchiesi sono afflitti da un problema terribilmente futile: i parabrezza delle loro automobili sono butterati, corrosi da innumerevoli cicatrici. Colpa dell’immensa nube di mosquitos che sommerge la zona? Delle esalazioni della palude, o di cos’altro? L’oziosa questione acquista consistenza quando una florida adultera muore a causa di un incidente causato da un parabrezza avariato. Altre morti tragiche e delittuose affiorano dalle paludi. Il caso Comacchio; fuoriesce dalla bizzarra cronaca locale e arriva a Roma, sulle scrivanie dei potenti; sembra infatti che i crimini nati dall’oscuro inconscio comacchiese vadano a intrecciarsi con i progetti di sviluppo metanifero della zona, che interessano sia il Governo italiano che quello americano. Fra questi due poli – il microscopico (e un po’ nevrotico) local e il misterioso global – si snoda una vicenda ricca di personaggi e di colpi di scena che, a dispetto dell’ ostentata matrice noir, percorre le vie del paradosso e del comico.

Maria Dolores Pesce, Mosquitos (dramma.it)

Tra la fine degli anni sessanta e i primi anni settanta Alberto Gozzi ed il fratello (maggiore) Luigi si inventarono, molto prima che il teatro di narrazione avesse il successo che ha avuto, un “Teatro Racconto” che a quello è simile anche etimologicamente e linguisticamente ma con il quale più che una relazione diretta di filiazione o fratellanza ha un rapporto che definirei di ‘cuginanza’, una confluenza ‘divergente’ per usare un paradosso.
Ciò che caratterizza, diversificandolo, il “Teatro Racconto”, infatti, non è tanto la volontà di narrare la narrazione in scena, quanto quella di mostrare consapevolmente il meccanismo che precede, genera e struttura, tra semantica e sintassi, quella narrazione in scena.
Forse in questo è mutuato più dalla lingua del radiodramma, integrando però l’ambiente sonoro e musicale che prevalentemente costituisce l’accadimento di quello, con l’elemento della visione teatrale (theaomai) attraverso la presenza in scena, che non è mai neutrale, come non è mai neutrale ad esempio un documentario rispetto all’evento che apparentemente descrive.
In “Mosquitos”, ultimo lavoro di Alberto Gozzi, che a quel teatro racconto felicemente ritorna e che dopo l’esordio a Torino è andato in scena nel piccolo ma confortevole teatro Garage di Genova (in fondo ricorda talora proprio uno studio di registrazione radiofonico), tutti quegli elementi ‘epici’, e anche di modalità espressiva si fanno espliciti, con l’aggiunta però di un’altra essenziale grammatica, quella della relazione, appunto in presenza contestuale, dell’attrice protagonista e del drammaturgo regista.
È una relazione, che si nutre anche ma non soprattutto di elementi esistenziali, ovvero, per così dire affettivamente, di storie condivise, ma che, come i due poli di un circuito elettrico attivato all’apertura del sipario, produce una energia empatica, tra di loro e tra loro e il pubblico, assai singolare ed in grado di trasportare con efficacia moltiplicata il significare profondo del racconto stesso.
Una sorta di corrente elettrica alternata che si auto-alimenta nel fluire tra il gesto del regista, quasi un ‘direttore d’orchestra’, e la recitazione in voce e corpo dell’attrice, la brava Alessandra Frabetti, quasi scandita questa dall’uso, alternato appunto, del microfono per la parte ‘raccontata’ e della voce viva (e Carmelo Bene ci ha insegnato quanto incida il mezzo con cui la voce dell’attore è ‘diffusa’) per i dialoghi che il racconto porta incastonati come iconiche e ironiche gemme.
Un racconto degli anni cinquanta (antico ormai) che suggerisce il modo in cui la realtà veniva percepita e comunicata nelle famiglie e nelle comunità nei tempi, che sembrano così lontani, in cui la virtualità del web non ci aveva ancora sottratto alla relazione fisicamente psicologica con l’altro, per rinchiudere ciascuno in una solitudine in cui si decanta il nostro male di vivere, come nella palude fognaria che scorre sotto Comacchio (lì si sviluppa il racconto), comicamente abitata da strane anguille, extra-mondane ma ancora capaci di ‘giudizio’ sul loro mondo e sul mondo degli uomini e delle donne ‘di sopra’.
Eppure, ed è la forza di questo teatro-racconto, in esso precipita la nostra modernità più inquietante, dalla crisi climatica anticipata, in una comica epidemia di parabrezza segnata da un tragico incidente, da acidi moscerini (i “mosquitos” appunto) che vivono tra sbuffi di metano, alla crisi molto politica rappresentata in un potere incapace di sottrarsi a meccanismi di imprigionamento sociale, all’oscura presenza del male, incredibilmente ‘corazzato’ in un ironico distanziamento, che il pittore pedofilo e omosessuale incarna quasi suo malgrado.
Ultima ma non ultima, la questione della diseguaglianza di genere di cui riporta, in una sorta di “Amarcord” tristemente felliniano, i prodromi, in una società in cui il femminile è ancora scisso tra la ‘Madonna’ e la ‘puttana’ e che l’ironica trama della scrittura lascia trasparire in espressioni e apprezzamenti oggi forse considerati non “politicamente corretti” ma comunque, e chissà se non proprio per questo, lasciati sostanzialmente immodificati.
Se ne fa carico proprio Alessandra Frabetti, attrice di qualità e apprezzata maestra di recitazione in varie importanti scuole, dalla Iolanda Gazzero dove ha insegnato molti anni alla Civica Accademia Teatrale Nico Pepe di Udine, ed altre che non è il caso di elencare, capace di interpretarli al meglio in voce e mimica, una mimica che qualche volta si fa quel ballo tanto amato in Romagna, e così di costruire o ri-costruire intorno a sé una calviniana ‘scenografia assente’.
Bel teatro per concludere, nella scrittura di Alberto Gozzi che lo dirige coadiuvato dalla fonica Lisa Lopresti, e nella recitazione di Alessandra Frabetti. Ci auguriamo abbia una vita intensa di approdi in molte altre città. A Genova in unica serata il 10 maggio di fronte a un pubblico che ha mostrato di apprezzare molto.

MOSQUITOS di Alberto Gozzi, con Alessandra Frabetti. Fonica Lisa Lopresti

Foto di scena Riccardo Antonino.

Jonathan Swift in meditazione. IL MANICO DI SCOPA

swift manico scopa

Talvolta anche gli autori più corrosivi sveleniscono il loro ingegno satirico e lo orientano verso una dimensione più meditativa. Di Jonathan Swift satirico è proverbiale la politicamente scorrettissima Modesta proposta, che per esteso recita Modesta proposta per impedire che i bambini della povera gente siano di peso per i loro genitori o per il Paese, e per renderli utili alla comunità. Com’è noto, la proposta consiste nel trasformare i piccoli in cibo per creare un circuito economicamente e gastronomicamente virtuoso. Meno conosciute, forse in quanto meno provocatorie, sono le Meditazioni su un manico di scopa, brillante e dolente esercitazione sull’età dell’uomoneri.

Il povero manico che oggi vedete ingloriosamente giacere in quell’angolo dimenticato, io so che un giorno fu fiorente in una foresta; era pieno di linfa, pieno di foglie, pieno di rami. Ora l’uomo tenta invano di gareggiare con la natura, legando quel fastello di ramoscelli secchi al suo arido tronco; col risultato che ora esso è il rovescio di quello che era un tempo: un albero capovolto con i rami a terra e le radici per aria; maneggiato da una qualunque donnetta, è destinato a eseguire il suo faticoso lavoro, per capriccio della sorte deve pulire le altre cose e sporcare se stesso; infine, ridotto a un moncherino dalle serve, viene buttato fuori dalla porta o condannato come ultimo uso ad accendere il fuoco.
Quando io mi accorsi di ciò, dissi fra me: certamente l’uomo è un manico di scopa. La natura lo ha creato forte e vigoroso, con i capelli in testa, poi l’ascia dell’intemperanza gli ha tagliato via i verdi rami e lo ha ridotto un arido tronco. Ma una scopa è il simbolo di un albero che sta in piedi sulla testa: mentre un uomo che cosa è se non una creatura capovolta, con la testa al luogo dei piedi, un essere che striscia in terra, eppure si erge, con tutti i suoi difetti, a universale riformatore e raddrizzatore dei torti, e che invece fruga in ogni sudicio angolo della natura, prendendo intensamente parte proprio a quelle porcherie che pretende di spazzar via? I suoi ultimi giorni sono spesi al servizio delle donne, e generalmente delle meno degne. Finché, ridotto al moncone, come la sua sorella scopa, non sarà messo a calci fuori dalla porta, o adoperato per accendere il fuoco, al quale altri possono scaldarsi.

Jonathan Swift, Meditazioni su un manico di scopa
Archinto, a cura di A. Brilli

Le figurine di Radiospazio. Misogini pagliacci

Le specialità di Milone erano le canzonette sentimentali, le più famose, quelle che normalmente commuovono e inteneriscono; ma in bocca sua quelle canzonette non commuovevano bensì facevano ridere perché lui sapeva renderle ridicole, in una maniera tutta sua, spiacevole e triste. Io non so che ci avesse quell’uomo: o che in gioventù qualche donna gli avesse fatto un torto; oppure che fosse nato a quel modo, con un carattere così, da prender gusto a mettere alla berlina le cose buone e belle; fatto sta che non era un semplice caratterista; no, lui ci metteva non so che rabbia e ci voleva tutta l’ottusità della gente mentre mangia per non accorgersi che non era ridicolo ma semplicemente penoso. Soprattutto superava se stesso quando si trattava di rifare le mossette, le smorfie e i vezzi femminili. Che fa una donna, sorride civettuola? e lui, da sotto la falda del cappello, abbozzava un ghigno sguaiato da baldracca. Batte, come si dice, un poco l’anca? e lui si metteva a far la danza del ventre spingendo in fuori la natica quadrata e massiccia come un pacco. Fa la voce dolce? e lui stringendo la bocca, ne tirava fuori una vocetta flautata, alla melassa, addirittura stomachevole. Non aveva, insomma, misura, passava sempre il segno, diventava scurrile, ripugnante. A tal punto che io spesso mi vergognavo, perché un conto è accompagnare con la chitarra un cantante e un conto tener bordone a un pagliaccio. E poi ricordavo di aver suonato non molto tempo addietro quelle stesse canzoni, cantate sul serio da un bravo artista; e mi faceva pietà vederle ridotte a quel modo, irriconoscibili e indecenti. Glielo dissi, una volta, mentre trottavamo per le strade, da un ristorante all’altro. “Ma che ti hanno fatto le donne a te?” Al solito, dopo aver fatto il buffone, era distratto e tetro, come se avesse avuto chissà che pensieri per la testa. “A me,” disse, “non mi hanno fatto niente.” “Dico così,” spiegai, “perché a prenderle in giro ci metti una passione.” Questa volta lui non rispose e il discorso finì lì.

 

Alberto Moravia, Il pagliaccio, Racconti romani, Mondadori

Bandiere

Oggi le religioni stanno trasformandosi da magnifici sistemi cosmologici e di pensiero, da straordinari contenitori di poesia, letteratura, modi di vivere, arte di relazionarsi, in identità sempre piú politiche. Religioni che avevano fino a poco tempo fa convissuto senza problemi, ignorandosi e accettando la non traducibilità di una fede in un’altra, oggi diventano il germe dell’intolleranza perché sono investite del compito di «dare un’identità» ai propri appartenenti. Non che la storia sia priva di guerre di religione. Anzi, sappiamo bene quanto sangue è stato versato per cause “sante” a questa o a quella religione. Quello che sta cambiando oggi nel mondo, con l’accelerazione della mobilità e la mondializzazione, è che gli spazi di indifferenza che rendevano possibili certe convivenze tra fedeli di diverse religioni sono saltati. Quello che in un lavoro di alcuni anni fa ho chiamato il «malinteso», che rendeva possibile la convivenza, l’idea che lasciare in pace l’estraneità dell’altro garantisse la propria6. L’ebraismo è quasi sparito dal Maghreb con l’eccezione del Marocco. I cristiani soffrono persecuzioni in Medio Oriente e in moltissime altre parti del mondo, i musulmani sono vissuti in India come un’immensa minoranza scomoda e pericolosa. È ciò che abbiamo visto avvenire negli ultimi anni anche all’induismo; un sistema di vita che fino a qualche decennio fa non amava nemmeno essere definito religione e che oggi è diventato qualcosa da contrapporre a qualcos’altro. Lo stesso è successo al buddhismo, che si sta rivelando in molte regioni del Sud-Est asiatico una molla di violenza nei confronti di chi non appartiene alla stessa identità. E l’islam ovviamente non è da meno, in questo contrapporsi di mondi a mondi che improvvisamente avvertono il proprio sistema di vita e di organizzazione come qualcosa di minacciato dagli altri sistemi. Il mondo cristiano non ha molto da insegnare in questo campo, se non la speranza che gli stessi errori coltivati nel passato anche recente vengano superati da altri sistemi di fede come qualcosa che non può avere a che fare con un senso universale dell’umanità. Le religioni diventano qualcosa da contrapporre, una bandiera dietro la quale si nasconde una debolezza di identità nazionale, o semplicemente la caduta di un modello, quello di Stati plurireligiosi e pluriconfessionali. (Erano Paesi retti da una idea imperiale del cosmopolitismo, dall’impero ottomano a quello austro-ungarico a quello inglese, ma oggi, saltati gli imperi, il nazionalismo ha preso le forme della religione e il cosmopolitismo sembra un sogno impossibile). Perché la preghiera, allora? Appunto perché, se si va nel minuto quotidiano, se si osservano le pratiche di pietà della gente, ci si rende conto che la preghiera è un anelito comune, al di là delle differenze teologiche e ideologiche (e politiche). Pregare significa invocare la divinità fuori o dentro di noi perché ci venga incontro e migliori le nostre vite. Si tratti di monoteismi o di politeismi, si tratti di animismi o di culto degli antenati, pregare significa rivolgersi a una presenza o a piú presenze al di fuori di noi, stabilendo una reciprocità (dispari il piú delle volte) fondamentale per motivare il nostro stare al mondo. Nel proprio carattere «vocativo» di addressing, la preghiera costituisce il principio di alterità. Non solo c’è qualcosa al di fuori di me, ma c’è qualcuno al di fuori di me. Il tu della preghiera sospende l’ego all’attesa di un senso corale e di una posizione dell’io stesso come molto piú ampio di sé. I casi ancora esistenti al mondo di culti e santuari comuni a piú religioni (dall’Etiopia all’India, da Bali a Giava, alla Cina) dimostrano che quando si tratta dell’urgenza della fede nelle impellenze quotidiane gioca piú un’idea di “risonanza” comune che quella di appartenenza. Se si chiede la guarigione del proprio figlio, la salvezza da una calamità, un ristoro nelle difficoltà o una illuminazione in un momento oscuro, è la pietà popolare a mescolarsi alle pietà popolari adiacenti.

Franco La Cecla, Convincere Dio, Einaudi

Mosquitos, questa sera alle 21

Nei cupi anni Cinquanta si dipana un noir che nasce da una futile constatazione: i parabrezza delle auto di Comacchio si usurano con una velocità allarmante. Colpa dei moscerini? Della palude? Delle esalazioni metanifere? Verrebbe da dire: “chi se ne importa”, se al fenomeno non facesse seguito una serie di morti inquietanti che chiama in causa il governo De Gasperi, la CIA e una quantità di enti più o meno reali, prima di giungere a una soluzione inimmaginabile.

Le figurine di Radiospazio. Il pane e le uova

Una sera mi telefonò mia figlia, dicendomi che voleva cambiar vita. «Non ti so dicendo che sono una vittima, papà… Sono solo una ragazza con due bambini e un fannullone buono a niente che vive con me. Non sono diversa da un sacco di altre donne. Non ho mica paura di lavorar sodo. Tutto quello che chiedo è un’opportunità di farlo. È l’unica cosa che chiedo al mondo… Posso fare a meno di un sacco di cose, ma finché non mi si offre una possibilità è dei bambini che mi preoccupo… Se ce la faccio ad arrivare all’estate, i miei problemi sono finiti, però mi occorre un piccolo aiuto, papà… Ehi, papà, mi ascolti?»Decisi di mandarle un tot al mese, ma avrei tanto voluto che quel figlio di puttana che viveva con lei non potesse mettere le mani su un’arancia o su una fetta di pane comprate coi miei soldi. Ma non c’era verso. Dovevo continuare a mandar soldi senza star lì a preoccuparmi troppo se quell’impiastro avrebbe intinto il pane nelle mie uova.

Mercoledì 8 maggio, a Torino

Nei cupi anni Cinquanta si dipana un noir che nasce da una futile constatazione: i parabrezza delle auto di Comacchio si usurano con una velocità allarmante. Colpa dei moscerini? Della palude? Delle esalazioni metanifere? Verrebbe da dire: “chi se ne importa”, se al fenomeno non facesse seguito una serie di morti inquietanti che chiama in causa il governo De Gasperi, la CIA e una quantità di enti più o meno reali, prima di giungere a una soluzione inimmaginabile.

Federico Sanguineti recensisce Pirandello

Federica Fracassi, Enrica Origo, Fulvio Pepe, Daria Deflorian.
Foto Luigi De Palma, TST

La vita che ti diedi al Carignano

Nella storia letteraria dell’intero Novecento, più di tutto Pirandello vale una singola pièce di Clarice Tartufari, praticamente sconosciuta ma ormai disponibile in rete (anche per chi volesse eventualmente metterla in scena, e sarebbe ora): ‘La Testa di Medusa’, un dramma del 1910 interamente incentrato sul femminicidio all’interno di una borghese famiglia patriarcale. Il testo di questo capolavoro di Tartufari è raggiungibile in pochissimi secondi a chiunque acceda al sito ‘A Celebration of Women Writers’, dove si raccolgono in progress le opere globalmente prodotte, in qualsiasi epoca storica, da tutte le scrittrici di ogni angolo del pianeta. Con questa premessa non si intende naturalmente sottovalutare l’importanza del teatro pirandelliano, che, pur non raggiungendo la vetta a cui perviene l’autrice di ‘La testa di Medusa’, non manca di offrire risultati di assoluto rilievo. Ne è prova ‘La vita che ti diedi’, opera del 1923 poco frequentata e a cui la critica (con l’eccezione di un saggio di Rosaria Lo Russo del 1994) non sembra aver riservato l’attenzione che merita: tanto più degno di lode il fatto che il Teatro Carignano abbia invitato a Torino Stéphane Braunschweig, direttore artistico dell’Odéon di Parigi, per metterlo in scena dal 9 al 28 aprile 2024 (sarà poi in tournée a Pesaro dal 2 al 5 maggio e a Bologna dal 9 al 12 maggio). Varrebbe francamente la pena vedere e rivedere questo spettacolo, a cominciare dall’anteprima, tutte le sere, sia perché la regia, operando coraggiosamente pochissimi tagli (mancano all’appello, al più, i due fanti e le donne del contado), invita a cogliere l’essenziale di questa «tragedia» (definita così da Pirandello stesso), che non è soltanto, come si è soliti ripetere (e come peraltro, a prima vista, è fin troppo evidente), il drammone tragicomico di una madre (Anna, esemplarmente interpretata da Daria Deflorian) che, addolorata fino alla follia, fatica ad accettare la morte di un figlio, bensì la rappresentazione di un universo che sembrerebbe matriarcale, costituito da madri e prole (figlie e figli), dove ogni padre ‒ questo l’aspetto decisivo, che passa inosservato ‒ è rigorosamente assente. O meglio: un padre c’è, ma don Giorgio è un padre spirituale e impotente, che, bibbia alla mano, non genera in carne ed ossa, ma dà continuamente vita, non senza imbarazzo suo e di chiunque, a timidi tentativi di prediche tanto inefficaci quanto sterili. La noiosa presenza di don Giorgio ‒ questo santo incapace di combattere il drago della follia borghese ‒ rende ancora più oscena l’invisibilità di ogni padre fecondo. I padri ci sono, naturalmente, ma restano oscenamente fuori scena: il che corrisponde (qui si cela il realismo di Pirandello) al dato storico del nostro bel paese, penisola tanto sovraffollata di poeti e santi e navigatori, quanto priva di padri minimamente presentabili, come non può che accadere del resto in un territorio perennemente occupato, dal cosiddetto Medioevo ad oggi, da forze militari straniere: longobardi o carolingi, Francia o Spagna, nazisti o nordamericani. Così, a chi ne è di volta in volta il padrone, l’Italia stessa (e con lei Pirandello) esibisce al mondo intero soltanto madri. In una sorta di girotondo, ecco: 1) madre è Anna di un adulto figlio morto; 2) madre è Fiorina (sorella di Anna) di un figlio e di una figlia adolescenti; 3) madre è Lucia, di due figli avuti dal marito, ma anche di un terzo, di cui è incinta, regalatole dall’amante (cioè dal figlio morto di Anna); 4) madre è ovviamente Francesca, che vorrebbe che la figlia Lucia ritornasse ipocritamente all’ovile borghese, cioè dal marito. E qui il cerchio si chiude, senonché, madre di tutte e di tutti, è finalmente la nutrice Elisabetta, interpretata in modo magistrale da Enrica Origo. Se dunque, con ‘La testa di Medusa’, da un lato Tartufari dà vita a un’opera universale, scavando al di là di Freud, per scoprire che il complesso edipico ‒ di padre in figlio ‒ è fenomeno di superficie, oltre il quale esiste la criminale complicità di una misoginia patriarcale borghesemente condivisa fra padre e figlio, dall’altro lato, poco più di un decennio dopo, con ‘La vita che ti diedi’, Pirandello svela un patriarcato di osceni padri fuori scena, quelli italiani, tanto duri a morire quanto di nessuna credibilità, travolti da piccoli traffici e grandi illusioni. In conclusione, meritevoli di plauso (e a lungo applaudite e applauditi), insieme ai costumi e alle scene di Lisetta Buccellato, oltre al regista, tutte le interpreti e tutti gli interpreti: Daria Deflorian, Federica Fracassi, Cecilia Bertozzi, Fulvio Pepe, Enrica Origo, Caterina Tieghi, Fabrizio Costella

Federico Sanguineti

Neera, Il ruscello avvelenato. 1919 (frammento)

Non so se oggi i maestri si sono persuasi, che l’insegnamento a base di nomi propri e di cifre è un corpo morto, il quale entra nel cervello dell’adolescente come in una tomba e vi si adagia nel sonno eterno. Il tedio, l’ira, l’odio in me succitati dallo Skager e dal Rattegat mi durano tutt’ora mentre, sarebbe stato tanto più interessante e istruttivo farci conoscere le terre della nostra bella Italia e condurci come in un viaggio di piacere sulle sponde dei nostri laghi e dei nostri mari, prima di ingombrarci la mente con nomi ostrogoti. Occorre bandire la pedanteria istruzione primaria, alleggerirla, renderla fresca e parlare al cuore, parlare all’immaginazione, svegliare la sensibilità sana delle giovani creature che devono svilupparsi nella vita e non ammuffire sui testi. L’educatore che s’accosta alla fremente anima del fanciullo sbadigliando gli aridi spunti, che la sua indolenza gli fa ripetere d’anno in anno, senza che mai vi palpiti l’ala di un pensiero suscitatore, somiglia a colui che applicando a una cassa di legno  cartone sforacchiato e girando una manovella crede di fare della musica. Quella del maestro non è una professione, è una missione; egli è il sacerdote laico dell’umanità che sorge. Il destino di molti uomini, come ruscello avvelenato alla fonte, si guasta e si corrompe, sui banchi della scuola; molti dotati delle migliori attitudini per lo studio se ne svogliarono in causa della cretineria dell’insegnamento scolastico.
Io a scuola non mi ci potevo vedere; preferivo di gran lunga le sgridate di mia madre e il desiderio di finirla con quella oppressione degli studi era tanto che su tutti i miei quaderni scrissi questo ammonimento a me stessa: •Ricordati, se mai un giorno venissi a rimpiangere la scuola, che ne hai tu desiderata ardentemente la liberazione. Ma quel giorno non venne mai.

Neera, Una giovinezza del XIX secolo, Liberliber

Rispuntano le Scimmie, un anno dopo, a sorpresa

https://www.laltrariva.net/scimmie-di-mare/

Come capita più o meno a tutti, ogni tanto mi perdo oziosamente nel pulviscolo della rete guardando senza troppo vedere e spesso senza nemmeno cercare. Così, per puro caso, mi sono imbattuto in una recensione delle Scimmie di mare, pubblicata un anno fa. La recensione è firmata da un’amica di antica data che l’aveva consegnata al mare del web senza segnalarmela, cosa che può stupire solo chi non conosce la sua riservatezza.
Nel 1958 uscì, per Grasset, Le repos du guerrier, di Christiane Rochefort, accompagnato da uno slogan molto efficace (non a caso lo ricordo ancora) “Il romanzo che ha fatto arrossire la signora De Gaulle”. Se dovessi creare una fascetta per un’improbabile riedizione delle Scimmie, scriverei “Il romanzo che ha ammutolito l’intero entourage dell’autore”. Con due eccezioni: l’autrice di questa recensione sommersa e un’altra amica che ne scrisse qualche dopo l’uscita del libro (https://radiospazioteatro.wordpress.com/?s=mariolina+bertini.)
Tra esse spartisco in egual misura il mio affetto riconoscente.

Paolo Volponi, La tuta operaia (frammento)

Io avevo paura di questo inizio, soprattutto paura che la fabbrica potesse assomigliare all’esercito ma mi trascinava il pensiero del lavoro da imparare. Aspettando per pochi minuti Grosset guardavo la macchina che egli prima stava riparando. Forse proprio quella sarebbe capitata a me: lo speravo, lieto che anch’essa dovesse ricominciare dopo un guasto. Grosset arrivò puntualmente; ripose i giornali, riprese il suo camice e ricompose con il suo sguardo la nostra squadretta di nuovi. Intanto arrivavano alla spicciolata tutti gli altri operai, con aria indolente e quasi ribelle.
Alle cinque, noi quattro nuovi avevamo avuto la prima spiegazione di Grosset e potevamo incominciare qualche esercizio pratico. Tutto andò bene. Io mi sentivo bene, anche se lavoravo con il mio abito buono e pesantissimo che mi faceva sentire molto caldo; ma Grosset non mi disse mai di togliermi la giacca.
Un quarto d’ora prima dell’orario di chiusura, il capo ci rimandò all’Ufficio Personale. Lì ci consegnarono la cartolina-orologio, indicandoci dove custodirla e come servirsene. Ci dissero di andare allo spaccio interno per l’acquisto degli indumenti da lavoro. Io comperai una tuta, a due pezzi come un abito borghese.
Uscii dalla fabbrica con il mio pacchetto sotto braccio, molto stanco e, appena l’aria di fuori mi investì con un caldo diverso, ebbi paura; mi sembrava di essere lontanissimo da Candia e da casa mia e di non poter trovare la strada per tornarci, tra tutta quella gente che usciva e che si salutava con un ultimo discorso, a voce alta e con una convivenza che mi allontanava ancora di più da tutti loro.
Arrivai a casa che era già notte. Trovai mia madre in cucina, seduta al buio; appena mi vide cominciò a piangere. Io la tranquillizzai su tutto e le dissi che avevo un lavoro, un buon lavoro con un salario di quarantamila lire, la mensa, le corriere e tutto il resto.
Lei mi diede da mangiare verdure del nostro orto, che ancora alla fine di luglio, dava piselli e fagiolini, oltre ai pomidori, nel pezzo dietro a casa, a nord, più umido e riparato da due alberi di noce. Io le mostrai la divisa di lavoro che avevo acquistato e lei volle subito, mentre io mangiavo, rinforzare tutti i bottoni con un filo più grosso.

Paolo Volponi, Memoriale, Garzanti