Fin dai suo primo sghembo gattonare, il padre aveva incominciato a chiamarlo campione, come nei film americani. “Come va, campione?”, “Il campione ne ha combinata un’altra delle sue!”; gli sembrava spiritoso e beneaugurante nei confronti di quel gamberetto che la fioca lanterna della sua immaginazione proiettava su piste imprecisate. La moglie taceva. Sembrava refrattaria a quelle euforie atletiche. “Non ha lo spirito sportivo”, masticava il padre, “perché l’ho sposata? Assomiglia ogni giorno di più a una tarma”; questo pensiero si rafforzava di sera, quando la ritrovava con una coperta grigia sulle spalle e lo sguardo fisso su una lampadina da quaranta candele. Nemmeno gli occhi del figlio campione brillavano quando rientrava dagli allenamenti quotidiani. Aveva preso dalla madre e anche lui fissava le lampadine a quel modo. Per fortuna indossava sempre il casco, lo toglieva solo per entrare nel letto, e questo era motivo di consolazione per il padre, soprattutto quando andavano a trovare quegli stronzi dei parenti.
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