Le vite che avremmo potuto vivere. PHILIPPE FOREST, IL GATTO DI SCHRÖDINGER

5533650Philippe Forest è uno dei più importanti scrittori francesi contemporanei, oltre che teorico e critico della letteratura. Come sempre, non voglio trasformare queste  poche righe in una scheda, quindi chi è interessato cerchi autonomamente notizie su di lui (la scheda su Wikipedia, onestamente, non è gran che ma almeno riporta un elenco delle sue opere). Due anni fa, RadiospazioTeatro ha messo in scena un suo radiodramma, 43 secondi (ne trovate notizia sul blog, fra gli spettacoli). Forest venne alla prima, lo spettacolo gli piacque; una certa consuetudine che c’era fra noi si rafforzò e proseguì nel tempo. Il gatto di Schrödinger, di cui ci occupiamo oggi (Del Vecchio Editore), è l’ultimo che ha pubblicato. A mio parere è anche il più affascinante. Ce ne parla Gabriella Bosco, francesista, teorica e traduttrice di Forest, in un breve saggio che ha scritto per il nostro blog.

Un giorno un uomo, il narratore, si trova nel suo giardino, a due passi dal mare, e d’un tratto vede apparire un gatto che esce dal buio. Ignora totalmente da dove provenga. Questo gatto passerà con lui un anno intero prima di scomparire nel buio da cui era uscito e ritornarvi senza che la cosa sia in alcun modo spiegabile.
Qualcuno ha scritto che con Il gatto di Schrödinger Philippe Forest ha inventato il romanzo quantistico. Il che, vero in sé, corrisponde ad affermare che è impossibile riassumerne altro se non l’esile trama appena riportata.
Si può però parlare in modo diverso del libro: ovvero spiegare in che modo è organizzato, e le ragioni per cui è irresistibilmente seduttivo, uno di quei libri che una volta iniziati non ci consentono più di lasciarli fino a che non sia stata voltata l’ultima pagina.

Diciamo allora che nel Gatto di Schrödinger Forest utilizza la fisica quantistica come una metafora. O meglio: che racconta il paradosso inventato dallo scienziato austriaco vincitore del Nobel per la fisica nel 1933, Erwin Schrödinger, in virtù del significato che esso può venire ad assumere all’interno di una narrazione suasiva e poetica volta a dimostrare le infinite possibilità del possibile.
Procediamo con ordine. Il paradosso di Schrödinger, come in molti superficialmente sappiamo, è un esperimento immaginario escogitato dal suo inventore al fine di dimostrare le assurdità cui rischiava di portare quella stessa fisica quantistica della quale egli aveva contribuito a definire i principi. Si chiude in una scatola un gatto con un atomo instabile supposto innescare un meccanismo tramite il quale un martelletto cade – infrangendola – su una fiala di vetro che contiene del veleno la cui evaporazione induce la morte del gatto. Il sale della cosa sta in quello che Schrödinger vuole affermare: cioè che la condizione particolare in cui si trovano gli elementi del mondo atomico, i quali possono essere in stati contraddittori e opposti allo stesso tempo, implica che in effetti – fino a che non si sia aperta la scatola per verificare – si deve ritenere che il gatto al suo interno sia morto e vivo allo stesso tempo. Questo ci dice insomma l’esperimento mentale in questione.
Ma l’uso che ne fa Forest non ha molto a che vedere con la scienza. Ciò che Forest propone in questo libro è piuttosto una sorta di meditazione alla maniera di un conte philosophique, a partire da estrapolazioni sue personali il cui carattere non è propriamente scientifico.
Il gatto, dicevamo, è una sorta di metafora e per Forest si tratta, attraverso questa metafora, questa vicenda, questo conte philosophique, di cercare di pensare l’enigma, la questione relativa all’apparizione e alla scomparsa di ogni essere vivente. Il gatto che è contemporaneamente morto e vivo, è allo stesso tempo qui e altrove, e ci obbliga così a riflettere sulle vite parallele, sui mondi possibili tra i quali ciascuno di noi esita.
Il gatto di Schrödinger è quindi un romanzo che si serve della scienza. Non un romanzo di fantascienza né una storia fantastica in senso stretto, ma una sorta di favola all’interno della quale veniamo trascinati. Senza quasi accorgercene, ci troviamo trasportati in uno spazio parallelo: quello delle vite che avremmo potuto vivere, delle esistenze che avremmo potuto conoscere, dei mondi nei quali avremmo potuto abitare.
È anche però un romanzo che s’inscrive – pur essendo molto diverso dai precedenti – nella linea ideale da essi tracciata, avendo come gli altri una dimensione autobiografica, e proseguendo la meditazione sul desiderio e sul lutto che ha rappresentato il soggetto esclusivo dei romanzi precedenti di Forest a partire da Tutti i bambini tranne uno: attraverso l’immagine di questo gatto che va e viene tra mondi che non conosciamo, Forest intende portare ogni lettore a meditare, come lui stesso ha fatto, poeticamente. Passando per ogni sorta di racconti che si amalgamano gli uni agli altri, Forest riflette e ci fa riflettere sulla nostra condizione nel tempo e nello spazio. Su quella sorta di nulla cui ciascuno di noi deve tuttavia dare un senso.

Gabriella Bosco

3 pensieri riguardo “Le vite che avremmo potuto vivere. PHILIPPE FOREST, IL GATTO DI SCHRÖDINGER”

    1. è un autore di livello molto alto. credo che se entrerai nella sua scrittura vorrai leggere la sua opera. è un viaggio importante e, soprattutto per i suoi primi tre romanzi, anche doloroso, ma ne vale la pena. se ti andrà, sappimi poi dire.

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